mercoledì 27 giugno 2018
L’abbiamo già detto e anche scritto. Ma, e vale anche per noi stessi, la massima latina del repetita iuvant, serve a chiarire le idee per una riflessione sui risultati di questa tornata elettorale, ancorché “piccola”, locale e, soprattutto, amministrativa. Ma pur sempre significativa. La Lega di Matteo Salvini è la vera vincitrice del 10 giugno. E il vero sconfitto è il Partito Democratico del quale sono crollate le roccaforti oltre che tanti altri comuni nelle aree regionali dove il Pci-Pds-Pd conservava e gestiva un’egemonia a partire dal primo dopoguerra.
Il 10 giungo come data fatale e simbolo del cedimento di quella che qualcuno ha chiamato la Linea Maginot del Pd renziano, con a fronte la vittoria dell’alleanza giallo-verde in quelle cui l’identikit politico, a partire dal 1945, attribuiva il nome di regioni rosse. In Toscana, per dire, il Pd ha perso Pisa, Siena e Massa. Sicché già girano i proverbi debitamente riscritti e ovviamente toscani del tipo: “Meglio un morto in casa che un renziano all’uscio”. Proverbio cattivo, forse fin troppo, anche perché una sconfitta del genere non può essere attribuita ad uno solo, ancorché di nome Matteo Renzi.
Quando finisce un’egemonia, colpe e meriti sono equamente divisibili e suddivisibili, persino al di là della personalizzazione estrema del renzismo. Sarà compito arduo per il Pd riprendersi dallo choc e già si profilano due tendenze, due opzioni, due ipotesi con da un lato il segretario Maurizio Martina per una sorta di continuità nella storica gauche e dall’altro l’ex ministro Carlo Calenda per un superamento dello stesso Pd con occhi rivolti, come si dice, ben oltre il vecchio e sconfitto Partito Democratico.
Da rilevare, en passant, che Matteo Renzi, pur nel suo fino a ora sconosciuto silenzio mediatico, mantiene il suo favore al segretario pro tempore Martina anche perché pensa all’appuntamento politico più vicino – le elezioni europee – dove intende probabilmente arrivare con le cosiddette mani in pasta nel partito dopo che i sondaggi, a proposito di un eventuale nuovo movimento in suo nome, sono a dir poco impietosi e segnalano, chi più chi meno, un misero 4 per cento.
Toccherà semmai al congresso quel sommovimento interno da molti auspicato, e non a caso i maligni accennano ai maneggi interni, alle non poche manovre renziane per rinviare il congresso a data da destinarsi. A proposito di personalizzazione – di certo la prima e la più significativa nella storia politica italiana – quella di Silvio Berlusconi non può non essere evocata in un ragionamento come il nostro tanto più in un momento nel quale sembrano capovolti i paragoni dentro il centrodestra di prima e di adesso, dove prima il Cavaliere guidava col vento in poppa l’alleanza con Umberto Bossi e ora c’è Salvini davanti.
La situazione o tenuta di Forza Italia è oggetto di discussioni, peraltro più esterne che interne, ma qualsiasi osservatore non malevolo non può non auspicare novità che lo stesso leader ha qualche ora fa promesso in un partito che sembra abbia perso non tanto o soltanto la voglia di discutere del proprio avvenire ma che, soprattutto, non comprenda l’assoluta necessità di queste discussioni peraltro non rinviabili, come si dice, alla prossima.
di Paolo Pillitteri