La flat tax sacrosanta contro l’odiosa progressività

venerdì 8 giugno 2018


In quella bibbia sulla “costituzione della libertà”, Hayek, premio Nobel per l’economia, ricorda e sottolinea che l’imposta progressiva fu lo strumento con il quale i Medici, appoggiandosi alle masse, ottennero a Firenze “un potere sempre più dittatoriale” (Friedrich A. von Hayek, La società libera, Firenze, 1969, pag. 576). Aggiunge che tale imposta, rispolverata all’epoca della Rivoluzione francese e delle agitazioni socialiste prequarantottesche, fu subito bollata come una follia: Turgot, giocando con il verbo ‘exécuter’, scrisse che bisognava uccidere l’autore anziché eseguire il progetto; Thiers sostenne che “la proporzionale è un principio, ma la progressiva non è che un odioso arbitrio”. Il maggior risalto viene da Hayek giustamente riservato a Marx ed Engels. Nel Manifesto del 1848 i fondatori del comunismo “scientifico” affermarono che un’imposta sul reddito fortemente progressiva sarebbe stata l’arma con la quale, dopo la rivoluzione (notare bene!) “il proletariato sfrutterà il suo potere politico per estorcere gradualmente alla borghesia tutti i capitali, per accentrare tutti gli strumenti della produzione nelle mani dello Stato”.

Dunque aveva perfettamente ragione John Stuart Mill nel definire la progressività “una forma moderata di furto”. Il grande economista austriaco rileva inoltre che in tempi più vicini ai nostri la Prussia nel 1891 introdusse l’imposta progressiva dallo 0,67 al 4 per cento. Seguirono il Regno Unito nel 1910 e gli Stati Uniti nel 1913 che la graduarono sul massimo, rispettivamente, di 8,25 e 7 per cento. Ebbene, vent’anni dopo queste aliquote raggiunsero la spettacolare cifra del 97,5 e 91 per cento! Le aliquote progressive non solo sono illegittime perché violano il principio di uguaglianza rettamente inteso: infatti solo con l’imposta proporzionale riusciamo ad applicare a tutti lo stesso criterio di prelievo. Ma non hanno neppure a che fare con la capacità contributiva o con la redistribuzione del reddito.

È dimostrato che le entrate erariali aumentano con il diminuire delle aliquote. Ed è altresì notorio che della progressività non beneficiano affatto le persone più svantaggiate, ma quelle che determinano la curva delle aliquote, cioè i gruppi di pressione più forti. A tacere che tutti si convincono, sbagliando, che le spese pubbliche saranno sostenute dagli altri. Così lo Stato viene spinto a sprecare quattrini come un marinaio ubriaco. Apparire più marxisti di Marx è il paradossale rischio che corrono, benché anticomunisti doc, i sostenitori di alte aliquote progressive, nell’illusione di perseguire una giustizia sociale che esiste solo nella loro testa, ma con la certezza di fornire al governo il formidabile alibi di spendere soldi spremuti ai ricchi in favore dei poveri. Soltanto i politici miopi o in malafede giungono a negare che, per effetto dell’imposta progressiva e delle sue conseguenze implicate e connesse, la pressione fiscale è divenuta tanto insostenibile quanto dannosa e ad affermare che l’indebitamento pubblico, dopo tutto, è nient’altro che un male minore perfettamente curabile, volta a volta, con un moderato innalzamento della scala delle aliquote.

C’è in giro, in Parlamento o al bar, un solo grullo disposto a credere che una maggioranza di legislatori che guadagnano oltre centomila euro approverebbe l’aliquota del 43 per cento (addizionali a parte) per l’Irpef sui redditi superiori a centomila euro?


di Pietro Di Muccio de Quattro