mercoledì 6 giugno 2018
Qualcuno del Partito Democratico si è lanciato sull’onda cinematografica marchiando con l’immortale “Chiacchiere e distintivo” il discorso, pardon lo speech di Giuseppe Conte al Senato in cerca di fiducia. Che avrà quasi sicuramente, al di là delle oltre sessanta approvazioni (applausi) dalla propria parte, forse nella convinzione della sempre utile insistenza dei consensi aperti, coram populo, peraltro ritenuti da sempre una sorta di aiutino decisivo.
Giocava in casa, come si dice calcisticamente, il Presidente del Consiglio e dunque il discorso di investitura senatoriale non comportava né ansia più o meno repressa o controllata, né attese più o meno messianiche, anche perché la figura di Conte era ed è sostanzialmente integrata nella sua professione di sempre, lontana fino a qualche giorno fa dalle impegnative scene politiche.
L’impressione generale per chi abbia avuto la pazienza di ascoltarne le frasi in un discorso con quel suo prudente dosaggio fra attese, queste sì messianiche pentastellate, e obiettivi narrati e dunque soltanto enunciati, ne avrà avvertito una sorta di obbligo sloganistico. È per l’appunto il significato immediato e il senso di quello che l’onorevole Mariastella Gelmini di Forza Italia ha bollato come intervento retorico, con parole di propaganda, con puntate giustizialiste e zero concretezza. Insomma, poche idee ma confuse.
In realtà, il Premier Conte, scelto essenzialmente sulla base di un curriculum, era ed è per così dire costretto entro argini che non ha nemmeno sfiorato mantenendosi prudentemente a quota di sicurezza, tant’è vero che la sua rotta si è svolta bensì all’ombra del populismo così caro al duo leaderistico che lo ha scelto, ma si è tenuta distante da qualsiasi impegno, alto o basso, nazionale o europeo che fosse.
E le cifre, i soldi, i danée come si dice a Milano? Silenzio profondo sulle cifre e le cosiddette indicazioni di spesa forse non avendo Conte piena consapevolezza, fino ad ora, dell’inevitabile incrocio che lo aspetta, del momento cosiddetto della scelta di fondo: deficit o tasse? Aqui està el busillis, come si dice nella lingua di Cervantes.
I temi cari alla propaganda grillina sono risuonati sotto le volte austere di Palazzo Giustiniani sia con qualche cenno peraltro inconfondibilmente inquietante sul versante giustizialista le cui note sono sempre fra le preferite dalla maggioranza di governo, sia con una specie di un qualcosa di gentilmente offerto alle opposizioni che l’onorevole Lucio Malan (Forza Italia) ha subito colto ribattendo che i diritti, soprattutto di chi non è d’accordo con un governo, non sono mai delle concessioni, assumono semmai la necessità di doveri veri e propri da condurre con la fermezza e la responsabilità connaturate a una forza liberale.
Ed è stato anche facile osservare che nell’ormai famoso contratto avvolto spesso nelle luci splendenti di una leggenda, i silenzi sono molto più frequenti delle frasi d’impegno preferendo il volare alto rispetto alla pratica, alla praxis propositiva sol che si pensi alla questione meridionale peraltro mai citata nel pur obbligatorio rilancio di un Sud così favorevole nel voto del 4 marzo ai pentastellati. Analoga osservazione, sempre di Malan, a proposito del lavoro, tema fra i più impegnativi, del quale il meno che si possa dire, a sentire il Presidente incaricato, è che la sua incentivazione appare assai ardua se non impossibile col ricorso a una misura diseducativa come il reddito di cittadinanza.
Insomma, la campagna elettorale non sembra del tutto finita tant’è che lo stesso Matteo Salvini ha volato alto a proposito di scelte internazionali per le quali ha garantito nientepopodimeno che una vera e propria rivoluzione copernicana. E Conte? Felice la sua definizione quale contrattista in doppiopetto.
di Paolo Pillitteri