giovedì 31 maggio 2018
Lo abbiamo scritto per primi ieri. E oggi lo ribadiamo: la soluzione della crisi politica passa per uno spostamento di Paolo Savona, uomo-bandiera del riscatto italiano in Europa, dal ministero dell’Economia ad altra funzione all’interno del medesimo Esecutivo giallo-blu.
Ma facciamo un passo indietro. L’intervento a gamba tesa della speculazione finanziaria ha indotto tutti i protagonisti del “pasticciaccio” italiano a ripensare la propria strategia che stava portando il Paese a infilarsi in un cul-de-sac dal quale non si sarebbe agevolmente tirato fuori. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per primo ha dovuto prendere atto che la soluzione del Governo tecnico avrebbe ancora di più eccitato la sete di sangue degli speculatori finanziari: nel giorno di Carlo Cottarelli al Quirinale lo spread è schizzato oltre i 300 punti base. È noto che, in casi come questi, l’unico antidoto efficace è quello di varare un governo politico che assicuri stabilità al Paese. I mercati finanziari, che sono di bocca buona, non si preoccupano più del necessario di quale colore sia l’Esecutivo che nasce, quanto piuttosto del fatto che abbia una solida maggioranza a sostegno e che si dia una prospettiva di lunga durata.
Tali evidenti considerazioni hanno spinto il capo dello Stato a richiamare a corte i reprobi leghisti e grillini. Luigi Di Maio, che aveva fatto fuoco e fiamme minacciando personalmente Sergio Mattarella di condurlo in vincoli a processo per alto tradimento, è stato perdonato. Matteo Salvini è invece osso più duro da rosicchiare. Perché dovrebbe cedere al diktat quirinalizio senza battere ciglio visto che è impegnato a capitalizzare il successo crescente che la sua linea strategica sta riscuotendo presso tutti gli italiani? Anche quelli del Sud, i quali iniziano a dimenticare il passato nordista del “Capitano”. Probabilmente buona parte dell’aumento di 7 punti percentuali che tutti i sondaggi attribuiscono all’avanzata leghista provengono dall’elettorato meridionale. A Salvini quindi converrebbe la soluzione che prevede il ritorno alle urne. Tuttavia, anch’egli non può pretendere di scegliersi una data di comodo per votare. La giocata dei “dem” dell’altro ieri di chiamare il voto anticipato prima della pausa d’agosto, resta comunque in campo come una spada appesa sul capo dei vincitori in pectore del prossimo confronto elettorale. Le urne al 29 luglio restano una deterrenza che però si trasformerebbe in dramma se si dovesse materializzare. Inoltre, per come si sono messe le cose con la speculazione, anche pensando di tenere in piedi con una non-sfiducia il governo tecnico di Cottarelli che sta scaldando i motori nell’hangar di Montecitorio, giusto il tempo di scavallare l’estate e andare al voto in autunno, l’Italia come potrebbe reggere altri quattro-cinque mesi sull’ottovolante dello spread? Ricordiamoci di ciò che accadde al Governo Berlusconi nel 2011. Bastarono i 30 maledetti giorni d’agosto a fare schizzare il differenziale con i Bund tedeschi di oltre trecento punti base.
D’altro canto, non si può obiettivamente pretendere che sia soltanto la Lega a versare il sangue per la Patria. Anche gli altri protagonisti del “pasticciaccio” di domenica scorsa devono pagare pegno. Mattarella si prepara ad abbracciare Paolo Savona, ma non da ministro dell’Economia. Di Maio ha fatto sua l’idea dello spostamento del vecchio economista ad altro incarico. Salvini ha inizialmente chiuso a questa possibilità salvo a riaprire uno spiraglio nella tarda serata di ieri. La poltrona dell’Economia è la linea del Piave della Lega. Se si vuole la quadra, tale deve restare. Ma con un altro vessillifero. Al Colle il nome di Giancarlo Giorgetti al dicastero di Via XX Settembre non sarebbe dispiaciuto. Perché allora non farci un pensierino? L’interessato, a suo tempo, aveva risposto: “Domine, non sum dignus”, pensando che il compito di andare in Europa a riscattare il futuro economico e sociale dell’Italia fosse troppo grande anche per la sua collaudata esperienza. Ma se la parte dei rapporti internazionali e comunitari potesse essere condivisa con la funzione di un ministero delle Politiche comunitarie a deleghe rafforzate e se quel ministero potesse andare all’esperto Savona, vivrebbero tutti felici e contenti. Non ancora.
C’è un’altra tessera del mosaico da sistemare e che a Salvini sta particolarmente a cuore. L’idea di avere un fianco scoperto a destra con la pattuglia di Fratelli d’Italia a presidiarla al leader leghista non piace. Ecco perché vuole la Meloni in maggioranza a tutti i costi. Finora non l’ha spuntata perché la “Giovanna d’Arco” della Garbatella, nel suo piccolo, ha tenuto duro. Poi però è successo qualcosa di grosso che l’ha convinta all’improvviso a cambiare posizione. Ufficialmente è stata la questione del veto straniero sul nome di Paolo Savona ad accendere in lei la reazione patriottarda. Sarà, ma abbiamo qualche dubbio che sia andata così. Piuttosto pensiamo che a fare scattare il “contrordine compagni” sia stata la pressione che ambienti militari e dell’industria italiana degli armamenti hanno esercitato su FdI perché accettasse l’offerta di entrare nella maggioranza giallo-blu. Aver visto la casella del ministero della Difesa attribuita a un esponente dei Cinque Stelle deve aver messo la strizza a molti. In principio si era fatto il nome di Guido Crosetto quale candidato naturale a quel ruolo. Ma la fedeltà del politico al suo partito aveva prevalso sull’ambizione a occupare la poltrona di ministro. Ora che Giorgia Meloni ci ha ripensato si potrebbe reiterare l’offerta a Crosetto cosicché militari e industriali della Difesa possano tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.
E le altre formazioni politiche? Non sarà un male per tutte loro avere davanti il giusto tempo per potere espiare le proprie colpe e rifondarsi dalle fondamenta. L’idea di andare alla rivincita a stretto giro sarebbe stata, ed è, il mezzo migliore per perdere tutto.
di Cristofaro Sola