venerdì 4 maggio 2018
Se abbiamo capito bene, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella continuerà le convocazioni, cioè le udienze post-elettorali, lunedì prossimo. Speriamo.
Il fatto – un fatto, non un’opinione – è che abbiamo superato i due mesi (sessanta giorni) dopo quell’appuntamento che abbiamo sempre ritenuto squisitamente politico avvenuto il 4 di marzo col popolo italiano che ha deposto nelle urne il suo voto. Intendiamoci, la sacralità dell’elezione è fuori discussione. Che, in genere, serve all’ottenimento di una maggioranza in grado o di cambiare il governo in carica o di confermarlo, con qualche appendice. Gli incontri al Quirinale sono propedeutici a questa operazione. Ma intanto sono passati più di due mesi e non si vedono conclusioni degne di questo nome, al di là e al di sopra del grido di vittoria lanciato dal grillismo di lotta e di governo tramite Luigi Di Maio, divenuto il capo politico del Movimento 5 Stelle.
Ma, come osserva il nostro direttore, il tratto distintivo di costui e del suo mentore Davide Casaleggio sembra essere un totale irrealismo politico, se è vero come è vero che ha cambiato, a parole, maggioranze e alleati senza tuttavia raggiungere il traguardo agognato, cioè Palazzo Chigi. Per sé medesimo. Altrimenti…
Già, altrimenti si deve tornare a votare, sempre secondo il Di Maio-pensiero, magari con l’attuale legge che non pare affatto una garanzia di cambiamento di maggioranze, e dunque ne occorrerebbe una nuova, di legge, pur sapendo, tutti quelli che se ne intendono, che per il raggiungimento in Parlamento (Camera e Senato) di questo obiettivo è necessario almeno un anno. E allora?
Allora siamo qui, fermi alla stazione della democrazia, in attesa di un suo (nostro) treno dato per rapidissimo ma ridotto a un accelerato di cui gli ultimissimi conflitti e scambi di accuse lungo l’asse Di Maio-Salvini rischiano addirittura di fermarlo, anche sullo sfondo di un Partito Democratico messo male anche e soprattutto perché il 4 di marzo gli ha tolto il ruolo di capostazione e non solo. A meno che con sia in grado di chiarire ai cittadini e al Parlamento quale sia la sua scelta in riferimento alle non poche ipotesi.
Il punto è che, a ben vedere, i risultati delle elezioni in Friuli-Venezia Giulia, dove i pentastellati sono passati, in meno di due mesi, da 170mila voti a 50mila, il dimaiano volere fortemente le nuove politiche anticipate per l’estate non pare di buono auspicio per i proponenti. Anche un Maroni non sarebbe contrario all’anticipo, ma lo sposta per l’autunno intendendo comunque che la sua Lega è pronta al voto tanto più che, a differenza del M5S, ha più motivi di soddisfazione, presente e futura giacché possiede con Silvio Berlusconi e fin da ora una maggioranza molto più degna della loro di chiamarsi tale. Volenti o nolenti è un dato, anzi un risultato, di fatto. Prendere o lasciare, come si dice.
Sic stantibus rebus, una riflessione sullo stato odierno della democrazia italiana sarebbe necessaria soltanto e qualora ne osservassimo i contorcimenti, le attese, gli ostacoli, i dietrofront, le contraddizioni; insomma tutto il bailamme che porta e porterà con il nulla di fatto – ora ben oltre i due mesi – con una durata che non si registrava quando nella sia pur deprecata Prima Repubblica i partiti riuscivano comunque a imboccare una strada governativa, sia pure col nome sollecitato dalle probabili vacanze e dunque bollata con la targa, indimenticabile, di “balneare”. Ma sempre di una scelta con alla base i partiti, appunto. Un ritorno a partiti degni di questo nome? Con logiche, storie, personalità, rappresentanti degni davvero di chiamarsi tali? Vedremo.
Certo, i due movimenti di centrodestra, di Berlusconi e Salvini, hanno il diritto-dovere di definirsi tali, sia pure quello berlusconiano con più ragioni per leadership e contenuti propriamente liberali, ed entrambi confermati politicamente e storicamente, ma un M5S, il grillismo-casaleggismo raccoglitore di proteste e non solo, un ensemble passato d’emblée dagli insulti infuocati erga omnes ai toni più pacati e morbidi, e che contiene di tutto e di più, come chiamarlo?
E quello di Matteo Renzi, che pure ha già subito una scissione bersaniana a sinistra, con peraltro risultati mediocrissimi per entrambi, non è anche questo un insieme… di opposti? La democrazia ha bisogno dei partiti e questi ultimi della democrazia. O no?
di Paolo Pillitteri