giovedì 3 maggio 2018
Oggi tocca a Matteo Renzi calare l’asso. Lo farà nel corso della direzione del Partito Democratico convocata nel pomeriggio. Non è sul tavolo l’opzione “accordo Pd-Cinque Stelle” perché quella strada è stata bruscamente chiusa dallo stesso Renzi domenica scorsa nella comparsata a “Che tempo che fa”, il programma di Rai Uno condotto da Fabio Fazio.
L’odierno vertice “dem” si muove su un altro registro, in ballo c’è il futuro del partito. Renzi finora ha giocato d’astuzia. Ha permesso che durante le prime settimane della crisi di governo i notabili del partito, sentitisi più liberi di esprimersi in costanza dell’ostinato silenzio del “piccolo padre”, venissero allo scoperto. C’era da valutarne il grado di lealtà alla causa. Perciò il segretario dimissionario li ha lasciati fare. Poi, quando le lusinghe del grillino Luigi Di Maio hanno cominciato a fare breccia negli animi disorientati di alcuni dirigenti, padron Renzi ha suonato la campanella che annunciava la fine della ricreazione. “O si resta uniti sulla strada tracciata o si va alla conta e, allora, nessuno più potrà giocare a nascondino ma dovrà scegliere con chi stare. O con me, o contro di me”: questo è l’ultimatum che rimbomberà come voce dagli inferi nella sala della direzione di oggi. E il caveat vale per tutti, nessuno escluso. Per il reggente Maurizio Martina, in primis.
Renzi ha dalla sua una naturale predisposizione al ragionamento cinico. È ciò, probabilmente, che fa di lui il tipico perdente di successo. Per quante sconfitte possa inanellare cade sempre in piedi e senza che mai gli sfugga di mano il bastone del comando. Tuttavia, viene da chiedersi: la maestria tattica di cui il giovanotto farà sfoggio questo pomeriggio dove lo porta? E, soprattutto, dove porta il Pd? Renzi non ha affatto perso di vista l’obiettivo di breve termine che resta la formazione del governo. Fingersi disinteressato, come se la questione fosse un affare privato tra Di Maio e Salvini, era anch’essa tattica. Lui ha atteso che i due s’incartassero. Non poteva andare diversamente viste le troppe insormontabili incompatibilità tra le due forze politiche. A campo sgombro potrebbe decidere che sia giunto il momento di fare la propria mossa proponendosi da sponda al presidente Mattarella il quale, a sua volta, cerca appoggi per dare vita a un esecutivo super partes a cui affidare la guida del Paese nella delicata fase aperta dall’esito del voto del 4 marzo.
Che poi, nel concreto, significa avere voce in capitolo nella partita in corso sull’approvazione del Quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea; predisporre e far approvare la legge di bilancio per il prossimo anno; portare a soluzione i maggiori tavoli di crisi aperti al Mise (il ministero dello Sviluppo economico), con il dossier della vendita Alitalia primo in lista; completare il giro delle nomine ai vertici in scadenza delle principali aziende pubbliche. E, ultimo ma non ultimo, riformare il “Rosatellum” per evitare che un ritorno anticipato alle urne ricacci il Parlamento nello stallo in cui è venuto a trovarsi dopo il 4 marzo. Non sarebbe un governo costituente ma potrebbe riorientare il corso della politica attualmente finito in un vicolo semicieco. Ed è in questo spezzone di partita che Renzi potrebbe chiedere di entrare in gioco. Si faccia attenzione alle parole.
L’ex segretario-dominus del Pd in tutte le dichiarazioni rilasciate ha sempre detto: “No a un governo a guida Di Maio o Salvini”. Ma non ha escluso possibilità d’intese con le forze che i due sfidanti rappresentano. Domanda: ad un governo di scopo presieduto da un leghista diverso da Salvini, ad esempio dall’ecumenico Giancarlo Giorgetti, il no iniziale renziano si potrebbe trasformare in un sì? Magari, attraverso un ragionamento più articolato, si potrebbe arrivare a una non-sfiducia, per usare una formula cara ad Aldo Moro, a un governo largo di centrodestra finalizzato all’attuazione di un programma minimo concordato con il Partito Democratico? Il quadro politico post-elettorale ci consegna dei partiti che hanno in comune la sola necessità di comprare tempo. Nessuno degli attori odierni ha interesse a disputare a breve un nuovo match elettorale. L’evocazione delle urne che taluni fanno è più uno spauracchio da agitare in volto agli avversari che un’opzione concreta alla quale credere.
Il guaio, però, è che nessuno dei giocatori vuole pagare un prezzo per il tempo acquistato. Si spera sempre che il conto, salato, finisca nella tasca altrui. Il presidente Sergio Mattarella potrebbe, allora, cavare tutti d’impaccio decretando d’autorità la tregua con la nascita di un esecutivo targato centrodestra ma vincolato alla dicitura di “governo di riscrittura condivisa delle regole” imposta dal Pd. Ne sarebbe intimamente felice anche il Movimento Cinque Stelle che, dopo essere finito spiaggiato a causa del disastroso avventurismo del suo acerbo leader Luigi Di Maio, potrebbe riprendere il largo tornando a nuotare in acque più familiari per una forza che ha saputo fare l’opposizione ma non è pronta a governare il Paese.
di Cristofaro Sola