venerdì 27 aprile 2018
Tutto è ormai da considerare mafia? La tentazione della giurisprudenza, salvo alcune voci autorevoli di esperti e accademici di Diritto penale oltre che dell’avvocatura penale, e nemmeno tutta, oltre che dell’opinione pubblica e dell’informazione, si muove in questa direzione.
Un’indicazione confermata anche dalla recente pubblicazione del terzo rapporto regionale sulle mafie nel Lazio. Ormai si parla di mafie al plurale come gemmazioni di ciò che i cittadini e la norma penale hanno finora declinato al singolare, in una monolitica categoria concettuale e comportamentale in cui rientrano anche la ‘ndrangheta e la camorra. Mafie, dunque. Più “contenute” per numero di presunti affiliati e delocalizzate.
Questione di lana caprina? Non proprio, in questo dettaglio grammaticale si annidano le nuove sfide, le difficoltà interpretative e le frizioni tra la prassi della giurisprudenza e la legge, nell’identificazione dei requisiti necessari per riconoscere e piegare condotte criminali cui si attribuisce una fluida delocalizzazione e variabilità di dimensioni rispetto all’associazione mafiosa prevista nell’articolo 416 bis del Codice penale. Nella cui fattispecie però sono fatte rientrare. Anche se alcune sentenze della Cassazione, come anche il primo parere del tribunale di Roma nel processo romano “Mafia Capitale”, hanno mandato in fibrillazione le certezze di chi punta sulle evoluzioni interpretative.
Importanti indicazioni su quanto possa rivelarsi fallace considerare condotte lontane dalla casa madre e diverse per numero di “partecipanti” solo una variazione di colore del conosciuto fenomeno dell’associazione mafiosa e su come l’estensività del termine “Mafia” e del reato 416 bis rischi di avere ricadute negative sulla società e su altri temi cruciali del diritto penale determinanti per lo sviluppo della società, però, ci sono arrivati dal convegno (il quinto in quattro anni) organizzato la scorsa settimana dal Laboratorio permanente per l’esame incrociato e per il giusto processo (Lapec, fondato dall’avvocato Ettore Randazzo e ora guidato dall’avvocato Valerio Spigarelli e di cui gli avvocati Cataldo Intrieri e Sabrina Lucantoni sono la preziosa anima organizzatrice) e intitolato: “Tra legislazione e giurisdizione: nuove prospettive del diritto penale”, in collaborazione con il dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Un’occasione di confronto/scontro dialettico sull’interpretazione della norma in relazione ad alcuni degli aspetti più critici e importanti del diritto penale moderno. E l’idea, più che il sospetto, emersa dal confronto tra in partecipanti: Parlare di mafie al plurale come tendere a far confluire il più ampio spettro di condotte criminali nell’imbuto dell’associazione mafiosa con il conseguente innalzamento del carico penale è una risposta rassicurante per l’opinione pubblica e anche un tentativo di contrastare in modo esemplare i più disparati fenomeni di delinquenza anche contro la Pubblica amministrazione, con gli strumenti investigativi e sanzionatori del 416 bis.
Per ora, però, il tentativo di collocare “Mafia Capitale” nei binari dell’esemplarità meritevole della legislazione antimafia si è al momento inceppato. Per il futuro, chissà. Certo è che buona parte della partita si gioca sui punti di contrasto e frizione tra norma e interpretazioni della giurisprudenza e che l’approccio dovrà presto affrancarsi da facili semplificazioni. Come quella di cui ha dato prova il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che in occasione del terzo rapporto sulla mafia nel Lazio con quel suo “Bisogna aver paura solo dell’omertà” pronunciato mentre la prefettura esprimeva il timore che il cambiamento del codice antimafia possa annacquare le attività di contrasto. La politica è ovviamente solo una faccia del più vasto problema legato a quello spostamento del principio di legalità prodotto da certa giurisprudenza che con interpretazione estensiva dell’associazione mafiosa esprime la volontà diffusa di far evolvere i modelli sulle mafie.
L’opinione pubblica preme e le forze politiche più populiste lucrano dalla prassi di saldare le pene al consenso popolare e non invece alla Costituzione e ai codici. Non resta che cercare di capire su quali punti si consumano le frizioni tra legge e giurisprudenza e quanto possa rivelarsi dannoso diluire il significato di Mafia rendendola ravvisabile in qualsiasi condotta delinquenziale. Evoluzione, è bene ripeterlo, di cui la mafia stessa si gioverà poiché se tutto è mafia ne sarà progressivamente attenuata proprio la fattispecie nociva. Il confronto è appena iniziato, come spiegato dal professor Cesare Pinelli e “il conflitto tra giudice e legge è sempre aperto, soprattutto in rapporto alle garanzie costituzionali dei diritti”.
Il ventaglio degli argomenti delicati se si parla di nuove mafie, è ampio e significa interrogarsi sulla scelta di considerarle reato di pericolo o di danno, sul valore e il grado da assegnare a requisiti come la capacità di sprigionare forza intimidatrice e l’offensività, e a formule come quel “si avvalgono” per delineare la partecipazione mafiosa, sulla necessità che la percezione del fenomeno sia diffusa e culturalmente percepita, sul peso più o meno prioritario e discriminante delle massime di esperienza, della sulla tipicità nella configurazione del reato 416 bis e quando mettere in discussione il principio di offensività. Quesiti su cui, come spiegato da Spigarelli, “dovrà concentrarsi lo sforzo di tutte le componenti della giurisdizione per trovare in questo momento storico parole comuni per confrontarsi con una legislazione priva della necessaria attitudine tecnica e sia dei rudimenti base per affrontare problemi di carattere penalistico posti dalla realtà contemporanea”. Tanto più se si affrontano i fenomeni mafiosi dato che “usando sempre più spesso mafie e non più mafia si declina questa parola in diversi significati a cui la giurisprudenza ha avuto un ruolo trasformando l’interpretazione dell’articolo 416 bis e ampliandone il ventaglio rispetto a fenomeni criminali e socio criminali prima non compresi nel campo di applicazione della norma”.
Sull’applicazione della norma è la dottoressa Sandra Recchione che dalla Cassazione fa l’inquietante premessa che vede nella mafia la manifestazione criminale più tipica degli esseri umani tanto forme mafiose sono diffuse in moltissimi Paesi, ritenendo sufficienti e imprescindibili elementi di prova del 416 bis le cosiddette massime di esperienza e un preesistente capitale criminale tipico del consorzio criminale che, insomma, alla fine nemmeno deve esser provato, quindi non c’è necessità di evidenze di forme di intimidazione nel nuovo territorio colonizzato. Ma siccome il diavolo ci mette sempre lo zampino, diversamente, per alcune sentenze di Cassazione, ogni volta che la mafia si trasferisce in nuovi territori è nuova e quindi si impone la prova della effettiva intimidazione.
Più restrittivo il professor Piero Gaeta sul principio di legalità convinto che la gradazione di “offensività del fenomeno”, a suo avviso l’unico piano su cui si gioca la partita, solo in parte venga dal legislatore e che alle nuove mafie e mafie delocalizzate si debba applicare lo stesso approccio giurisprudenziale accolto con l’associazione per terrorismo 270 bis: “Nessuno mai – ha detto Gaeta – rifiuta l’assunto che non esistano concentrazioni stabili su territorio nazionale; è la cellula, mobile, territoriale e liquida l’unica con cui ci si confronta. E anche una sola azione di supporto ad azioni terroristiche di una cellula configura l’associazione per terrorismo”.
Non ci sta proprio, invece, il professor Costantino Visconti. L’offensività, “maneggiata dalla giurisprudenza come una sorta di intimidazione autoreggente e aggravante del vincolo associativo, invocata ovunque per aumentare il carico sanzionatorio va intesa come requisito per restringere, non per allargare la fattispecie”. È pensabile dare l’aggravante senza che vi sia minaccia? Traducendo, è, ad esempio, da condannare qualcuno soltanto perché costretto al rituale di affiliazione se nella vita si dedica ad attività assolutamente lecite? Scontato quale sia il pensiero di Visconti a cui si unisce l’avvocato Giuliano Dominici che, parlando di piccole e nuove mafie, di fronte a un pubblico studentesco, ha pensato di ricorrere a un efficace linguaggio fiabesco per rilevare un altro elemento decisivo: “In che termini funziona l’esportazione del modello in realtà autoctone in cui viene contestato? Perché il vestito del 416 bis è stretto, fatica ad adattarsi ai fenomeni e condotte poliedriche e se la forza di intimidazione non deve necessariamente tradursi nel controllo di un’area per delineare quel reato, se il 416 bis può riguardare piccole mafie con basso numero di appartenenti e una sola condotta può esprimere il vincolo associativo che si può manifestare con mezzi semplici come minacce a soggetti non in grado di difesa, che non è necessaria la presenza di omertà permanente ma sufficiente che la forza del sodalizio possa ingenerare l’omertà, c’è un’evidente forzatura nel trasformare un’associazione semplice in associazione mafiosa”. Ma anche, avverte Dominici, “l’Europa già una volta, di fronte al reato di creazione giurisprudenziale del ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ ci ha mostrato che il re era nudo”.
E se “il principio di legalità subisce uno spostamento con questa interpretazione estensiva che fa evolvere i modelli sulle mafie e ne diluisce il significato”, di fronte a un legislatore che crea fattispecie e giurisprudenza che ne crea altre modificando la legge, c’è da domandarsi se “l’Europa non punterà presto nuovamente il dito sulla incongruità tra norma e giurisprudenza delle sentenze dicendoci un’altra volta che il re è nudo”. Mentre sullo sfondo, nel frattempo, si staglierà lo sgomento di qualche ex “reuccio” dell’associazione a delinquere che, con sentenza definitiva alla mano, si ritroverà invece “promosso” al 416 bis.
Le prospettive in cui il diritto penale si approccerà al fenomeno delle nuove mafie e i suoi sviluppi sulla nostra società sono in buona parte affidate alle parole del vice presidente della Camera penale di Roma, Vincenzo Comi: “È importante che tutti i soggetti coinvolti nell’attività giurisdizionale e nello svolgimento del processo seguitino a confrontarsi per rafforzare la qualità professionale”.
Anche quella di una politica e di un’informazione più competente e capace di ammansire, non di cavalcare, le aspettative della pancia dell’opinione pubblica. Ne abbiamo tutti bisogno.
di Barbara Alessandrini