giovedì 19 aprile 2018
Oggi Israele compie settant’anni, e voglio essere sincero: quando si parla di Israele, la mia passione è sfrenata. Per secoli, gli ebrei di tutto il mondo hanno pregato per poter ritornare a Sion. Noi siamo tra i fortunati che hanno visto accolte le loro preghiere.
La fondazione dello Stato nel 1948; il coronamento della visione del ruolo di Israele come casa e rifugio per gli ebrei di tutto il mondo; l’aver abbracciato a piene mani la democrazia e lo Stato di diritto; i risultati impressionanti ottenuti nella scienza, nella cultura, nell’economia: sono tutte conquiste straordinarie. E se aggiungiamo che i vicini di Israele decisero sin dal primo giorno di distruggerla con qualunque mezzo, allora la storia dei primi 70 anni di Israele diventa ancora più importante.
Nessun altro Paese si è trovato davanti a probabilità di sopravvivenza tanto sfavorevoli, né ha dovuto affrontare lo stesso livello di incessante demonizzazione internazionale da parte di troppe nazioni pronte a gettare al vento la propria integrità e la propria moralità. Eppure gli israeliani non si sono mai lasciati andare a una mentalità da assedio, non hanno mai abbandonato il loro profondo desiderio di pace con i loro vicini e la loro volontà di affrontare rischi senza precedenti per poterla ottenere - come è successo con l’Egitto nel 1979, con la Giordania nel 1994, e con il ritiro unilaterale da Gaza nel 2005, ad esempio, e come accadrà sicuramente un giorno con un accordo con i palestinesi, quando la loro leadership accetterà finalmente la realtà di Israele e il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico.
Di certo la costruzione di una nazione è un processo enormemente complesso. Per Israele, è iniziato tra le tensioni con la popolazione araba del posto che accampava diritti sulla stessa terra, ma che purtroppo nel 1947 rifiutò la proposta delle Nazioni Unite di dividere la terra in due Stati, uno arabo ed uno israeliano (la prima soluzione a due Stati); mentre il mondo arabo cercava di isolare, demoralizzare, e come scopo finale, distruggerla; mentre il Paese fu costretto a dirottare gran parte del proprio già limitato budget nazionale alle spese per la difesa nazionale; e mentre il Paese cercava di forgiare una identità nazionale e un consenso sociale all’interno di una popolazione con grandi diversità geografiche, linguistiche, sociali e culturali.
Come ogni vivace democrazia, Israele è un cantiere sempre attivo. Ha di certo i suoi difetti, tra cui l’eccessiva e poco sacra intrusione della religione nella politica, l’imperdonabile emarginazione delle correnti religiose diverse dall’ebraismo Ortodosso, e il compito – innegabilmente arduo e ancora incompleto – della piena integrazione degli arabi israeliani. Ma queste sfide, sebbene importanti, non devono oscurare i notevoli risultati ottenuti da Israele.
In soli 70 anni, Israele ha costruito una fiorente democrazia, unica nella regione. È un Paese la cui Corte Suprema può porre veti alle decisioni prese dal premier o dalle forze armate, con un parlamento esuberante, una robusta società civile e una stampa energica. Ha costruito un’invidiabile economia, sempre più basata su incredibili innovazioni e nuove tecnologie, il cui Pil pro capite supera di gran lunga quello dei suoi quattro vicini messi insieme – Egitto, Giordania, Libano e Siria. È entrata a far parte dell’Oecd, è diventato un centro globale di ricerca e lo sviluppo, ed è un magnete per gli investimenti esteri. È sede di università e di centri di ricerca che hanno contribuito all’avanzamento delle frontiere della conoscenza mondiale in innumerevoli modi, arrivando a vincere un gran numero di premi Nobel.
Allo stesso tempo, ha fatto di tutto per aderire a un severo codice di condotta militare che ha pochi rivali nel mondo democratico – per non parlare del resto del mondo – affrontando un nemico pronto a mandare bambini in prima linea ed a rifugiarsi nelle moschee, nelle scuole e negli ospedali. È uno dei Paesi con il più alto tasso di sanità al mondo, con un’aspettativa di vita più alta di quella degli Usa, per non parlare di un punteggio consistentemente alto nelle classifiche annuali dell’”indice di felicità” dei vari Paesi. Ha costruito una fiorente cultura, ammirata in luoghi ben lontani dai propri confini, prendendo con amore un’antica lingua – l’ebraico, la lingua dei profeti – e rendendola moderna per ospitarvi il vocabolario del mondo contemporaneo. Nonostante le voci intolleranti di qualche estremista, ha costruito un clima di rispetto per le altre fedi, tra cui i baha’i, i cristiani e i musulmani, e per i loro luoghi di culto. C’è forse qualche altro Paese nella regione che può dire altrettanto?
Ha costruito un settore agricolo che ha molto da insegnare ai Paesi in via di sviluppo per quanto riguarda la trasformazione di terre aride in campi di frutta, di vegetali, di cotone e di fiori. Allontaniamoci un attimo dal groviglio di informazioni che ci rintrona quotidianamente e consideriamo la portata degli ultimi 70 anni. Guardate a quanti anni luce di distanza siamo arrivati dal buio dell’Olocausto, e meravigliamoci del miracolo di un popolo decimato che è ritornato su un piccolo fazzoletto di terra – la terra dei nostri antenati – sfidando ogni probabilità e costruendovi un moderno e vivace Stato.
In ultima analisi, la storia di Israele è la stupenda realizzazione di un legame che dura da 3500 anni tra una terra, una lingua, una fede, un popolo ed una visione. È una storia impareggiabile di tenacia e determinazione, di coraggio e di rinnovamento. In definitiva, è la metafora del trionfo della durevole speranza sulle tentazioni della disperazione.
(*) David Harris è Ceo dell’Ajc - American Jewish Committee
di David Harris (*)