venerdì 16 marzo 2018
L’ultima frontiera della polemica politica ruota sulla dichiarazione choc di Matteo Salvini che, da premier, sarebbe pronto a sforare la regola aurea del 3 per cento nel rapporto Deficit/Pil, imposto dalle autorità comunitarie sui conti pubblici dei singoli Paesi membri dell’Unione europea.
In effetti, il riferimento al parametro scaturito dai Trattati di Maastricht è stato superato da quello ancora più stringente imposto con l’approvazione, il 2 marzo 2012, del Fiscal compact. Tant’è che da un pezzo l’Italia fa i conti, a causa dell’entità del suo debito pubblico, con percentuali di deficit consentite ben distanti dalla soglia del non più attuale 3 per cento. Ciononostante, Salvini si dice pronto a eludere il patto per dare luogo a una stagione d’investimenti e di agevolazioni alle imprese e ai singoli cittadini. Gli ortodossi del rigore che fino a ieri tendevano a non dare rilievo alle dichiarazioni del leader della Lega giudicandole semplicisticamente demagogiche perché irrealizzabili, all’indomani dell’esito elettorale devono riconsiderare il proprio atteggiamento. Il voto ha sancito l’esistenza di una volontà popolare diffusa che non ritiene affatto che le tesi leghiste confluite nel programma del centrodestra siano aria fritta ma, al contrario, auspica che al più presto esse si concretizzino attraverso un’efficace e puntuale azione di governo. Che lo voglia o no l’Europa.
Posto che mai le classi dirigenti dovrebbero prendere sottogamba le indicazioni date dal corpo elettorale, nella circostanza specifica la questione del maggiore deficit nel breve termine, funzionale allo sviluppo economico nazionale, sarà centrale nell’evoluzione delle trattative intra ed extra parlamentari per la formazione di una maggioranza in grado di sostenere un governo di legislatura.
Ora, non si tratta di appellarsi alle dichiarazioni di fede per risolvere un problema che richiede il massimo del pragmatismo. Se il limite del 3 per cento non può essere un dogma, certamente lo è la responsabilità della classe politica di non mandare il Paese in bancarotta con iniziative le quali facciano aumentare il debito pubblico senza produrre l’effetto sperato della crescita massiccia del Pil. Come garantirsi dal rischio? È noto che per implementare le molte riforme radicali che sono scritte nel programma del centrodestra, abolizione della Legge Fornero e introduzione del flat tax in primis, occorra una quantità ingente di risorsa finanziaria disponibile. Dove attingerla? Una parte di essa si pensa di recuperarla dal taglio delle cosiddette spese improduttive che gravano sul bilancio dello Stato. È una strada sdrucciolevole. In molti prima d’ora hanno provato a mettervi mano con la “spending review” ma, puntualmente, non si è approdato ad alcun risultato significativo. La trama degli interessi corporativi correlati ha fatto sì che nessun pezzo importante venisse tolto dalla costruzione col pretesto, in parte rispondente al vero, che l’intero edificio dello Stato che sussidia il pubblico e il privato nell’interesse del cittadino sarebbe venuto meno.
Posto che a Salvini riuscirà di effettuare qualche taglio non senza patire le doglianze dei soggetti colpiti, è certo che non basterà per riqualificare la spesa. Per non finire nel classico cul-de-sac, una strada percorribile s’indirizza all’emersione della cosiddetta economia non osservata nei conti nazionali. È lì la miniera nella quale sono nascosti i tesori che potrebbero, se riportati alla luce, adeguatamente soddisfare il fabbisogno finanziario da destinare alla copertura delle riforme programmate. I numeri sono da capogiro.
Secondo un report dell’Istat diffuso l’11 ottobre 2017, nel 2015 l’ammontare dell’economia sommersa è stata stimata in 207 miliardi 573 milioni di euro, pari al 12,6 per cento del Pil. Il valore aggiunto generato è stato di 190 miliardi 474 milioni di euro al quale devono sommarsi 17 miliardi 099 milioni derivanti dalle attività illegali e criminali. La composizione dell’economia non osservata indica che il 44,9 per cento è generato da sotto-dichiarazione del reddito prodotto mentre il 37,3 per cento è attribuibile all’impiego di lavoro irregolare, parzialmente o totalmente a “nero”. Basterebbero questi due dati per convincerci di un’innegabile verità: il carico eccessivo della pressione fiscale stimola l’evasione e l’elusione. Una politica che facesse perno su di un’imposizione più leggera porterebbe inevitabilmente all’emersione di quella montagna di ricchezza prodotta che oggi fugge dalla fiscalità generale.
Alle condizioni date non esiste alternativa praticabile. Se si vuole provocare una spinta alla crescita bisogna utilizzare le risorse finanziarie andandole a prendere dove sono. Che solo in minima parte possono essere tratte dalle pieghe tortuose dei capitoli di bilancio. I comparti nei quali maggiore è l’incidenza del “sommerso” sono quelli dei servizi (33,1%), del commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (24,6%) e delle costruzioni (23,1%). Che poi, neanche a dirlo, sono quelli sui quali la crisi ha picchiato duramente.
Non sarebbe un’idea peregrina se un governo del centrodestra proponesse alle imprese di questi comparti economici una sorta di nuovo patto. Un “new deal”, in base al quale lo Stato, in cambio del recupero fiscale sulla ricchezza emersa, s’impegnasse ad agevolarne con misure d’intervento mirato la ripresa produttiva. Messa così, nel senso di una gigantesca operazione di moralizzazione dei rapporti tra privati e mano pubblica, il temporaneo sforamento dei parametri imposti da Bruxelles non solo potrebbe essere accettabile ma finanche necessario in vista degli obiettivi di crescita da traguardare nel medio termine. Si tratta di correre stando in equilibrio su di un filo sospeso ad alta quota. Reggere la sfida è ciò che fa la differenza tra uno statista lungimirante e un ciarlatano qualsiasi. Salvini cos’è che vuole essere?
di Cristofaro Sola