Referendum: nord contro sud? e Milano?

mercoledì 25 ottobre 2017


Qualcuno nel governo italiano (italiano!) è preoccupato delle condizioni poste da Luca Zaia (il vero vincitore di domenica scorsa) definendole né più né meno “irricevibili” soprattutto perché, a differenza di Maroni, il governatore veneto “chiede tutte le competenze, i nove decimi delle tasse e il Veneto a Statuto speciale: un’operazione pre-secessionista di chi non ha a cuore l’unità nazionale”(Gianclaudio Bressa, sottosegretario agli Affari regionali).

Più che pre-secessionista, la posizione di Zaia (diversa da quella di Maroni, come vedremo) va certamente oltre quanto si leggeva sulla scheda referendaria, anche soprattutto perché quanto ivi scritto faceva bensì riferimento all’autonomia regionale, ma prendendola, come si dice, alla larga. Nel senso che il quesito referendario era di per sé bonne à tout faire, avvolto nella vaghezza dei buoni propositi, privo di un’incisività per dir così ficcante ,ovvero in grado di porre qualche alternativa secca o almeno precisa allo status quo. Perciò Zaia chiede di più, molto di più pur sapendo, da politico sveglio quant’altri mai, che ce ne vorrà di tempo nelle trattative che intercorreranno fra poco fra Regione e Governo, anche nel caso che quest’ultimo, fra qualche mese, annoveri ministri della Lega (magari un Salvini, hai visto mai?).

Si discuterà a lungo del risultato di domenica 22 ottobre, non tanto o non soltanto a proposito delle risposte “statali” alla indiscussa vittoria del Veneto (e qui sarebbe meglio parlare di Liga veneta più che di Lega, ma Salvini non è per niente d’accordo) quanto, soprattutto, per la differenza fra i due risultati, così diversi fra loro e dove, all’interno di quello lombardo, spicca il dato di Milano. Intanto si vorrebbe qui rilevare che l’entusiasmo maroniano per il superamento della quota del 34, da lui stesso prefissata, è a dir poco curioso. Col quorum o senza quorum, un referendum importante (specialmente per leghisti e nordisti) come questo che si ferma al trentotto per cento sarebbe affatto singolare se lo si considerasse un successo, tanto più che, osservando il dato di Milano del 26 per cento, parlare di ottimo successo è quanto meno singolare, a meno che non si parli di politica vera e allora il dato più significativo su cui riflettere è la certificazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, che esistono sostanzialmente due Italie, basti notare che il saldo fra quanto versa e quanto riceve la Lombardia è negativo per 54 miliardi di euro l’anno, mentre quello del Veneto è di 15 miliardi, il piemontese di 8 e quello emiliano di 18.

In soldoni, la Sicilia a Statuto speciale riceve 10 miliardi in più di quello che versa allo Stato, mentre ogni cittadino lombardo devolve annualmente allo Stato 5mila euro; ogni calabrese e ogni sardo, al contrario, ricevono dallo Stato 3mila. È dunque più utile parlare di due Italie piuttosto che di Nord contro Sud, e ancora più necessario, scegliere da parte dei governi presenti e futuri una delle due strade: “Restituire più soldi al Nord oppure diventare impietosi con gli sprechi del Sud, o persino l’una e l’altra insieme” (M. Feltri). E il caso, pardon, il risultato di Milano, come e dove lo mettiamo se non fra la conferma che i milanesi innanzitutto non si sentono automaticamente lombardi, ma, soprattutto, sono pragmatici e pratici, dunque abituati a misurarsi con l’Italia e con l’Europa, e nella misura in cui Milano si sente protagonista, altrettanto non pensa e non vuole essere coinvolta possedendo una dinamica più da Città-Stato che da capoluogo della Lombardia. Tanto più che in città non cambierà niente e men che meno ci sarà alcun dibattito sull’argomento dell’aver votato poco. Se del caso, ne riparleremo.


di Paolo Pillitteri