Bankitalia, referendum, e poi?

martedì 24 ottobre 2017


Sembra facile stare dietro a tutto quanto capita da noi. Un caso dopo l’altro, un fatto dopo l’altro, un referendum dopo Bankitalia. Ma dopo? Già, il dopo è sempre dietro l’angolo, ma c’è un “ma”. Il “ma” sta nel susseguirsi diuturno, continuo, implacabile di casi, storie, episodi, avvenimenti, anche e soprattutto politici dei quali, proprio per il loro incedere senza tregua, si potrebbe scomodare tranquillamente l’antica massima che et plus ça change, et plus c’est la même chose. E questo, se non corressimo il rischio di passare per qualunquisti, potrebbe suggellare qualsiasi tentativo nostrano d’azione se non fossimo a nostra volta involuti, invischiati, attorcigliati intorno ai casi di un res publica sempre più tesa alla sua sopravvivenza. Diciamocelo: cosa succede dopo il sì all’autonomia lombardo-veneta? Che cosa capiterà dopo la vicenda di Bankitalia? Già il porsi questi interrogativi comporta un certo non so che di inconcluso-inconcludente nelle misura con la quale dovremmo sempre misurare il possibile in politica, cosa che da noi rimane sempre avvolta nelle nebbie delle riunioni, degli incontri, delle tavole rotonde, di tutto quanto necessiterebbe di decisioni, possibilmente rapide, e invece si ferma al verbo, alla parola che ne è il riassunto più emblematico. Parliamone!

Eccome se ne parla e parlerà, figuriamoci. Solo che se prendiamo il doppio referendum autonomistico, notiamo, specialmente dopo i risultati peraltro chiari, soprattutto per Luca Zaia e un po’ meno per Roberto Maroni, che se non siamo allo status quo ante, poco ci manca. E ciò non tanto o non soltanto per la natura non vincolante del voto, ma in modo particolare per la sostanziale genericità - se non vaghezza - della chiamata alle urne, già sottolineata da molti osservatori che non può rendere i due referendum simili a plebisciti. Ma in che film!

Naturalmente i due presidenti vincitori, entrambi, non a caso leghisti, hanno tutto l’interesse a parlare di un risultato da “big bang delle riforme istituzionali” (Zaia) e di “importante superamento del 34 per cento previsto” (Maroni), anche se non è alle viste nessun big bang nazionale e, quanto a Maroni, per un referendum regionale, un’affluenza fissata dal governatore leghista alla percentuale del 34 per cento è piuttosto bassina. Per carità, meglio un referendum che niente. Peccato che coloro che l’hanno voluto, ovverosia quelli della Lega, abbiano posto il tema dell’autonomismo in modo abbastanza discutibile: la parola chiave del discorso autonomista non è la pretesa ma l’autodeterminazione, che, quella sì, ha un grande valore democratico, e la mancata emersione di questo tema ha messo in evidenza un certo limite culturale del leghismo.

Quanto alla vexata quaestio di Bankitalia, è curiosa la discussione, ancora in corso ma sempre meno accalorata, sul problema dell’autonomia - termine da non confondersi con l’autonomismo di cui sopra - con i rispettivi paladini, manco si trattasse di un derby calcistico. Dire infatti che “Palazzo Koch non è dei partiti, colpevoli di violazione delle procedure e d’invasione nelle competenze di altri organi dello Stato” come ha scritto Giorgio La Malfa su “Il Giorno” sarebbe perfetto se non cozzasse contro un principio ritenuto sacro, specialmente dai repubblicani d’antan, quello del primato del Parlamento. Tant’è vero che Martelli ha avuto buon gioco a replicargli che “la mozione approvata è del tutto legittima rimanendo sul piano politico e non comportando vincoli giuridici per il Governo”.

Quanto ai fatti, resta sullo sfondo, ma non tanto, quell’insieme di paure, di delusioni, di timori di tanti italiani dopo le crisi bancarie per le quali non ci siamo accorti in questi anni, forse per sbadataggine, di autocritiche, interventi, decisioni ad hoc. Ah, già, l’autonomia... E dopo? Parliamone!


di Paolo Pillitteri