martedì 24 ottobre 2017
La paura che si potesse innescare un processo di follia catalana ha reso impossibile aprire una discussione un minimo approfondita sui referendum sull’autonomia celebrati in Lombardia e in Veneto. Anche gli esponenti della Lega Nord, che sono stati i principali promotori dell’iniziativa, hanno messo la sordina alla richiesta di maggiore autonomia contenuta nei referendum nel timore che qualche tono di troppo avrebbe potuto portare nell’immaginario collettivo del Paese a un facile parallelismo con l’indipendentismo irrazionale catalano. Le elezioni politiche si avvicinano a passi da gigante.
E nessun partito, tanto meno alla Lega di Matteo Salvini impegnata nel tentativo di trasformarsi in una forza politica di interesse nazionale, ha voluto correre il rischio di essere paragonato a chi, come in Spagna, non esita a minacciare la spaccatura del Paese in nome della conservazione dei privilegi di un territorio ristretto. Per cui la linea generale, del centrodestra come di larga parte del centrosinistra, è stata quella del “sì all’autonomia e del no all’indipendentismo”.
Cioè una linea che dice tutto e niente e che favorisce una serie di equivoci destinati a perpetuarsi all’infinito. Perché il principio che una serie di competenze e funzioni debbano essere assegnati agli enti locali piuttosto che allo Stato centrale è sacrosanto. A condizione che queste competenze e funzioni siano ben definite e, soprattutto, sia definito il territorio dove applicare il principio dell’autonomia. Il referendum di domenica scorsa, ad esempio, ha alimentato un equivoco di grande importanza rispetto alla definizione del territorio a cui assegnare l’autonomia. Si è detto che questo territorio sarebbe stato il Nord, il Settentrione, le regioni poste al di sopra del Po.
Invece a votare sono stati separatamente i lombardi e i veneti. Come se ognuna di queste regioni e di queste popolazioni rivendicasse una propria autonomia diversa da quella della regione e della popolazione vicina. E il Piemonte e i piemontesi? E la Liguria e i liguri? Per non parlare dei valdostani, dei trentini e dei sudtirolesi che hanno già una loro particolare autonomia ma ne vorrebbero ancora di più e tutta diversa l’una dalle altre.
E allora? Il rischio è che la strada dell’autonomismo di ciascuno diventi il trionfo del “particulare” e porti a quel municipalismo esasperato che è stato una delle cause principali della subordinazione italiana dei secoli passati alle grandi potenze unitarie europee. L’occasione del referendum avrebbe dovuto stimolare un dibattito serio sul regionalismo e sulla necessità delle macro-regioni. Ma non è successo. Speriamo nel futuro!
di Arturo Diaconale