Il nuovo discrimine della politica

giovedì 11 maggio 2017


La vicenda delle presidenziali francesi rende ancor più manifesta la caduta, almeno in una certa parte dell’Occidente, dei vecchi schemi politici basati sulla contrapposizione destra/sinistra, conservatori/progressisti, moderati/riformisti e via discorrendo. Con l’avanzata tumultuosa dei cosiddetti populisti - partiti e movimenti che in molti casi fino a pochi anni addietro potevano contare su un seguito di poche centinaia di adepti - si stanno rapidamente creando nuove alleanze e nuovi equilibri politici. Tutto ciò determina con sempre maggiore chiarezza un diverso posizionamento delle forze in campo. Posizionamento che, soprattutto in Italia, che tra i grandi Stati europei è quello che presenta le maggiori criticità, tende a formare un sempre più marcato discrimine tra le forze in campo: da un lato i populisti che parlano alla pancia del Paese, portando avanti tesi e proposte piuttosto semplicistiche e vendendole con un linguaggio altrettanto elementare; dall’altro lato dovrebbero invece esserci tutti quei soggetti politici responsabili i quali, al netto di ogni elemento propagandistico, intendono appellarsi al senso di realtà e di ragionevolezza, o almeno a quel che di ciò ancora resta, degli italiani.

Realtà e ragionevolezza che, come ho già avuto il privilegio di scrivere su queste pagine, rappresentano l’essenziale presupposto culturale e politico per impostare nel medio e nel lungo periodo quelle sempre invocate riforme strutturali in grado di fermare l’inarrestabile declino italiano. Niente a che vedere, dunque, con il populismo avventurista, ad esempio, del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e della Lega di Matteo Salvini, i cui programmi sono ispirati, tra l’altro, a una indigesta macedonia di sovranismo monetario, cospirazionismo anticapitalista e protezionismo di stampo ottocentesco.

Al pari di Marine Le Pen, la grande sconfitta nella corsa all’Eliseo, i populisti italiani esprimono un tale, insensato radicalismo sul piano economico-finanziario che non vedo, nel caso di una alleanza, pre o post-elettorale che sia, come sia possibile trovare con essi un minimo comune denominatore politico. Un punto d’intesa, nel caso del vecchio centrodestra, che neppure l’attuale leader del Carroccio sembra minimamente intenzionato a trovare con i suoi vecchi alleati, così come egli ha sostanzialmente affermato nella puntata di Matrix dello scorso martedì. Quest’ultimo, in particolare, dopo aver raggiunto proprio su una linea rigorosamente populista e sovranista un livello di consensi mai raggiunto prima dalla Lega Nord, ha tutto l’interesse a capitalizzare il suo bottino elettorale, evitando come la peste di allearsi nuovamente con Forza Italia, ovvero un partito saldamente ancorato alla nostra permanenza in Europa e alla moneta unica. Specularmente, lo stesso ragionamento vale per Silvio Berlusconi e i suoi, in gran parte restii, al di là delle chiacchiere ufficiali, a collegarsi con una formazione che fa dell’antieuropeismo la sua bandiera.

Tutto questo, come accennato all’inizio, produce una inarrestabile inerzia politica che spinge su fronti contrapposti i populisti che ritengono di risolvere i gravi problemi italiani con l’accetta e tutti quelli che, al contrario, si rendono conto che la strada per salvare il Paese dallo sfascio totale è stretta e impervia e si chiama “realtà”.


di Claudio Romiti