Le ragioni del “No”

venerdì 14 ottobre 2016


Tra le tante ragioni che dovrebbero indurci – tutti – ad esprimere un “No” risoluto e definitivo al discutibile quesito referendario sulla revisione costituzionale, una mi pare sufficiente a giustificare la negazione del consenso ed a legittimare la protesta: questa riforma proviene dai banchi del Governo e non dallo scranno dei parlamentari.

Cerchiamo di capirci bene e, se possibile, fino in fondo. Questa Costituzione, per molti versi, appartiene al passato e non sembra più in grado non già di garantire la governabilità del sistema (ciò che rappresenta, all’evidenza, un problema politico superabile con leggi ordinarie), ma di favorire le condizioni di realizzazione degli scopi per il cui raggiungimento venne emanata. Siamo tutti d’accordo, dunque, che è giunta l’ora di modificarla, la Costituzione, e di fare una riforma che tenga conto - anche - delle numerose cessioni di sovranità in favore dell’Unione europea degli ultimi anni. Il problema, però, è capire chi deve riformarla e come. Sui contenuti della revisione possiamo discutere, sulla penna che scrive il testo, no. Non il Governo. Chiunque – sia una Commissione creata ad hoc, una Bicamerale, un Organismo a composizione mista, di cittadini esperti e parlamentari – ma non il Governo, perché, in una democrazia liberale, le regole del gioco vengono scritte dal titolare della sovranità.

E poiché non possiamo pensare di rimettere all’intero corpo elettorale la stesura della nostra carta fondamentale, siamo costretti a rivolgerci a chi è investito della delega di esercizio della menzionata sovranità. Nell’oceano infinito delle polemiche concernenti la riforma, non ho sentito dire neppure una volta che le Costituzioni democratiche servono soprattutto a garantire i cittadini dai pericoli che derivano dallo Stato, non al pur meritevole fine di assicurare il risparmio dei soldi pubblici. Nel gioco delle parti, volendo ricorrere ad una metafora, noi siamo i deboli ed il Governo è la parte forte; noi eleggiamo un Parlamento al quale deleghiamo la nostra sovranità e il Governo, da buon fiduciario, amministra la Nazione.

Non si tratta di scegliere tra parlamentarismo e presidenzialismo (nelle sue molte sfumature o accezioni), ma di fissare regole che impediscano lo svuotamento della democrazia. Quindi, non sta al Governo scrivere quelle regole. Se questo accade – come è accaduto qui da noi – corriamo il rischio di trovare sparse qua e là delle norme che prevedono una corsia preferenziale per i disegni di legge governativi, che riducono le autonomie locali e che sono potenzialmente idonee a determinare lo stallo tra i due rami del Parlamento a tutto vantaggio di chi (il Governo, manco a dirlo) può surrogarsi agli inerti ed intervenire. Dietro le quinte, ma neppure troppo, magari troveremo una legge elettorale che cristallizza e protegge, fortificandola, l’unica maggioranza prevedibile.

Io non voto no (soltanto) perché non sono d’accordo con il merito della riforma. Io voto no perché i Governi passano e la Costituzione resta e perché non addebito a quest’ultima le lungaggini delle discussioni parlamentari o il fallimento delle Regioni. Quelle, ammesso che sia così, sono colpe che ricadono su di noi, ma non giustificano in alcun modo la consegna di una delega in bianco all’unico Organo la cui sopravvivenza è legata al persistere di una fiducia che, a questo punto, potrebbe essere conquistata e mantenuta proprio grazie allo squilibrio determinato dalle nuove regole volute e scritte dall’Organo stesso.


di Mauro Anetrini