giovedì 6 ottobre 2016
C’è un’analogia storica fra il referendum Monarchia/Repubblica del 1946 e quello di oggi? Dire di sì, sic et simpliciter, è fin troppo facile, giacché il 52 per cento dei “No” (sondaggio) concentrato nel Meridione è, ancorché indicativo, non molto assimilabile all’antico “No” alla Repubblica. Eppure, eppure… C’è qualcosa, direi quasi una costante, da allora ad oggi in quella negazione, superata poi dal voto nordico, sia pure di poco e sia pure contestata.
Così, a naso, pare che la concentrazione dei “No”, ovviamente a questo Governo, nella parte meridionale italiana, ricalchi per qualche verso una sorta di muro, un costante rifiuto di un certo meridionalismo ai cambiamenti istituzionali. Pare, e lo sottolineiamo ben bene, anche e soprattutto perché la storia non si ripete due volte, specialmente se andiamo più addentro alle diversità fra i due referendum: quello del 1946 drastico e diretto, quello di oggi non poco confuso e vagamente intriso di burocrazia “de sinistra”, quando bastava a un “Sì” o un “No” alla mandata a casa del Senato. Ma c’è anche un quid che andrebbe compreso al di là delle due fazioni che oggi si contendono non solo, o non soltanto, il contenuto di un cambiamento costituzionale ma soprattutto la cacciata di un Premier.
Solo Stefano Parisi - che è poi uno dei pochi se non l’unico nei paraggi del centrodestra che ha motivato il “No” sia con un Matteo Renzi da rimanere al suo posto, (sic!) sia, ed è un fatto di rilevante impegno politico, offrendo l’altro giorno a Milano una piattaforma programmatica di ampio respiro - pensa che quel posto il Premier lo possa mantenere dopo l’eventuale, e da lui non poco temuta, vittoria del “No”. Il Sud, dunque, “et pour cause”, ché l’uscita renziana sul Ponte di Messina la dice lunga sui suoi timori. Così come, il suo frequente passaggio nella metropoli ambrosiana suggerisce un affetto e un approccio preferenziali, anche perché a Milano, ma anche in giro per il Nord, le cose non stanno ferme, le linee metropolitane, tanto per dire, avanzano, come sempre, da sempre. E il bello è che ci sono imprenditori a Milano che persino a proposito del “wishful thinking” sul mitico ponte hanno rispolverato antichi disegni fattuali, forse in nome dell’antico adagio che “la speranza è l’ultima a morire”. La stessa speranza che non sembra abitare nelle menti e neppure nei sogni di molti del Sud Italia se analizziamo la sostanza del loro “No” di oggi, e, come si diceva, di quello di ieri.
La sostanza è duplice: la promessa (lasciamo perdere il Ponte sullo Stretto) di una resurrezione di molte zone autenticamente da Terzo Mondo quanto a servizi e strutture pubbliche, non è stata mantenuta e sarebbe storicamente ingiusto attribuire la colpa soltanto all’attuale Governo. Il fatto è, purtroppo, che destra e sinistra al governo, hanno fatto troppo poco e, sovente, troppo male, per i nostri fratelli. I quali, tuttavia, hanno spesso espresso governanti locali che con un eufemismo definiremmo non all’altezza della situazione. Le élite - penso alla Sicilia, ma ce ne sarebbero altre - soffrono, da un lato di una sistematica lamentazione che riecheggia le pagine più educative del “Gattopardo” e de “I Viceré”, coniugando passato e presente con una dose di fatalismo, mescolando l’anticentralismo con un’alta dose di antipolitica. Il popolo da loro amministrato, pure. Anche e soprattutto perché sentono nel profondo del loro pessimismo organico che anche votare per il “Sì” non significherebbe una svolta, un inizio di ripresa, di rinascita. E non possiamo dare loro torto perché troppo spesso gli è stato annunciato il mitico cambiamento, risoltosi, appunto, in un annuncio. Allora? Continuerà per dir così quello speciale muro fra Nord e Sud? Ai posteri la (non) ardua sentenza.
di Paolo Pillitteri