martedì 6 settembre 2016
Le parole, si sa, hanno il loro peso. Ma pure i fatti, diciamocelo. La situazione roman-reggiana è stata fin troppo sviscerata da meritare un’analisi ulteriore. Salvo che per i dettagli. Tant’è vero che, almeno secondo i proverbi antichi, la realtà sta molto spesso nei dettagli. L’ultimo, ma solo in ordine di tempo, riguarda la nomina del nuovo assessore al posto di un altro. Niente di strano, anzi, di nuovo, a parte una sostituzione a pochi mesi dall’insediamento della Giunta Raggi.
No, il nuovo sta nel dettaglio nominalistico legale “Sammarco-Previti” che sta suscitando non un vespaio di critiche per il fatto in sé, ma, appunto, per i due nomi. Manco si trattasse di bestemmie, di fonti impure, di origini infernali. Macché, è il nome di uno studio di avvocati, di legali noti e stranoti, presso il quale (altro dettaglio) la sindaca Virginia Raggi ha svolto il praticantato. E allora? E con ciò? Tutto qui? Una persona normale si limiterebbe a questa presa d’atto, e stop. Invece è un’esplosione di schiaffi mediatici, un tripudio di condanne, di insinuazioni, di boatos. E di frecce avvelenate contro la Raggi. La quale, invece di essere giudicata per le cose che fa, soprattutto per quelle che non fa, viene messa al muro da scariche micidiali, anche dal suo interno.
Il fatto è che, come si dice in genere, chi è causa del suo mal pianga se stesso. Le frecce sono auto-frecce e le scariche auto-scariche. Perché i grillini hanno fatto tutto loro, si sono costruiti questo ambaradan con le proprie mani, fin dai tempi del “vaffa day” che, per chi ha scarsa memoria, ha rappresentato il punto più basso, deleterio, devastante dell’espressione di una rivolta al sistema dei partiti, ritenuti tutti incapaci, tutti corrotti, sia per la voluta e gratuita volgarità dell’incitamento, prevalentemente ad personas criminalizzando tutto e tutti; sia, specialmente, per la non valutazione delle sue conseguenze. Che, attenzione, non riguardano soltanto i successi elettorali, ottenuti anche grazie anche ai troppi media compiacenti e, ovviamente, ai conseguenti elettori, ma sono direttamente proporzionali alla capacità di tradurre in realizzazioni i sentimenti dalla vera e propria caccia all’“homo politicus” (ma non solo) scatenata proprio da quella sordida allocuzione, anticipata dal proclama ternario “onestà, onestà, onestà”.
L’indice accusatore, moralistico da strapazzo e giacobino un tanto al chilo, negava fin da subito il proclama ternario, che sarebbe dovuto cominciare da loro, introducendo il suo opposto: la maldicenza, le accuse non provate, le insinuazioni senza costrutto reale. Insomma, la teoria del sospetto come fondamento dell’antipolitica a sua volta basata sulla denigrazione personale, senza diritto di replica. E, attenzione, sulla scarsa o nulla democrazia interna e, ancora peggio, senza più streaming inneggiante alla trasparenza, anzi, senza più dialettica. Tutto a colpi di espulsioni, decisioni direttoriali, tipo direttorio da Napoleone (della Magliana, con rispetto della Magliana). Ebbene, questo sistema che definire infame (politicamente) non è un’esagerazione, si è rovesciato come un guanto contro gli stessi propugnatori e la prima vittima non poteva che essere la plurigettonata Raggi. Cosicché il puro dettaglio del suo tirocinio si sta tramutando nell’ennesimo pugno in faccia per la povera sindaca ognora sorridente: “Ridi ridi, che la mamma ha fatto i gnocchi”, diciamo noi lombardi.
In realtà c’è poco da ridere, o meglio, c’è poco da ridere di fronte all’ennesima lezione dei fatti. I quali non solo hanno la testa dura ma durano nel tempo se non servono ad insegnare: che quando si deve passare dalla protesta, tanto più se sgolata dall’indegno vaffa, alla gestione di progetti complessi (a Roma tutto è complesso) all’esame di dossier impegnativi, alle soluzioni di problemi anche immediati, si avverte tutto il peso di un’ideologia (chiamiamola così…) e di un’impostazione di pura apparenza, fittizia, artificiosa, vuota, di pura demagogia populista. Aggravata dall’assenza di democrazia interna, destinata, temiamo, a produrre più che disastri nei pentastellati, danni irreparabili ai romani.
Per Matteo Renzi viene in mente l’immortale “Que reste-t-il de nos amours” forse perché Charles Trenet ignorava ancora il significato renziano di rottamazione. Ma noi no. Noi ce ne stiamo accorgendo e siamo sicuri che anche al Premier sia venuto qualche sospetto. Difatti, almeno nei toni, nelle locuzioni tv, nelle brevi comparse, a cominciare dal terremoto, è come se lo slancio della parola in sé e per sé “distruttrice” avesse perduto per strada l’impeto programmatico, la veemenza del cambiamento “hic et nunc”, lo slancio irrefrenabile del toglietevi di mezzo voi, vecchie carampane, ferri arrugginiti del passato, utensili impraticabili dell’epoca di Twitter. Nulla a che fare col “vaffa”, intendiamoci. Ma la scomparsa di certi freni inibitori alla baldanzosità iniziale la dice lunga sulla quasi pacatezza di oggi. Oggi che l’effetto degli ottanta euro conta meno - anche se allora lo fecero vincere - conta la complicazione delle riforme da fare e/o fatte, la difficoltà drammatica di un’economia più che zoppicante, le paure di un’immigrazione che cresce a dismisura, i timori di un terrorismo che ci minaccia. Ed è così che la rottamazione si è incamminata sul viale del tramonto. Ciò che fa e ha fatto sempre la differenza è quello che si chiama scarto: fra l’ideale e il reale, fra le promesse e i risultati, fra gli annunci e i fatti. E qualcuno canticchia il motivo di Charles Trenet…
di Paolo Pillitteri