Erdogan e la politica fallimentare di Obama

martedì 19 luglio 2016


È stata una scelta di realismo politico quella compiuta dai governi dei Paesi occidentali nel sostenere la reazione di Erdogan al golpe abortito di alcuni reparti delle forze armate turche. Dopo aver registrato che il colpo di mano dei golpisti non era andato a compimento e che il premier Erdogan era vivo e capace di reagire, i governanti europei ed americano hanno puntato sul fattore che più poteva dare garanzie di stabilità alla Turchia piuttosto che favorire un’incognita destinata in ogni caso a provocare una destabilizzazione del Paese chiave per gli equilibri del Medio Oriente e della tenuta della Nato nel Mediterraneo orientale e nei Balcani.

Non si è trattato di una scelta scontata. In occasione delle rivolte verificatesi in occasione della cosiddetta “Primavera araba” la scelta occidentale è stata esattamente contraria. Gli Stati Uniti in primo luogo ed i governi europei sulla loro scia, hanno favorito in passato la destabilizzazione dei regimi autoritari esistenti in quel periodo nei Paesi arabi dell’Africa del Nord e del Medio Oriente e hanno puntato sulla sostituzione dei dittatori in favore dell’avvento di nuove forze politiche. Allora come oggi la spiegazione formale è stata quella del sostegno ai valori democratici. Erdogan non è stato abbandonato in quanto espressione di un governo eletto democraticamente. Ed i dittatori sono stati scaricati in nome dei valori della democrazia sbandierati dalle masse popolari che a loro si ribellavano.

Ma non c’è bisogno di essere troppo smaliziati per capire che la spiegazione era ed è fasulla. Erdogan, non a caso definito “il Sultano”, è “democratico” quanto poteva essere Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. La verità è che i valori democratici non c’entrano un bel nulla nelle scelte dei Paesi occidentali. E che il sostegno all’autocrate turco costituisce da un lato un’inversione di rotta radicale rispetto alla politica seguita nei confronti delle “primavere arabe” e dall’altro la conferma più clamorosa del totale fallimento della strategia portata avanti dal 2011 ad oggi nei confronti del Mediterraneo e del Medio Oriente dagli Stati Uniti e dai Paesi europei. Il caso Erdogan è, nella sua discontinuità, l’ultimo anello di una catena di errori dovuti in primo luogo all’amministrazione Usa e, sulla sua scia, alle cancellerie del Vecchio Continente.

Quanto incideranno questi errori commessi da Obama e dalla Clinton nella campagna presidenziale americana? Probabilmente poco, visto che gli elettori Usa sono sensibili a questioni che poco hanno a che fare con la politica estera. Ma è certo che chiunque vincerà, Trump o la stessa Clinton, dovrà cambiare radicalmente la strategia fallimentare americana in Europa, in Africa ed in Medio Oriente.


di Arturo Diaconale