giovedì 14 luglio 2016
La decisione di Matteo Salvini di ridurre la sua presenza sui mass media (leggi: talk- show) sarà benefica per lui. Purché duri. Il fatto è che tutta o quasi la campagna elettorale amministrativa di stampo salviniano è stata segnata a fuoco dall’uso e, soprattutto, dall’abuso dei talk, saltabeccando da uno studio all’altro, andando cioè a zonzo per l’etere alla stregua di uno spot, senza neppure il riguardo del minutaggio obbligato. Giusta la sua rinuncia, si capisce. Anche, e direi purtroppo, alla luce dell’exploit da candid camera dello stesso segretario leghista riprendendo - e proiettando in tivù, con commento ad hoc - la scena di un immigrato che faceva pipì fra le piante in un parco milanese. Qualcuno ha detto che, nella fattispecie, sul Salvini politico ha fatto aggio il Salvini giornalista ammaliato dallo scoop. In realtà il segretario di un partito nazionale mai e poi mai dovrebbe ridursi a simili giochini onde dimostrare l’invasione dei maleducati immigrati, quando, invece, l’unico suggerimento che si evince dal suo filmino, sarebbe la maggiore diffusione dei mitici “vespasiani”, necessari anche alle eventuali urgenze delle prostate dei locali.
A ben vedere l’ultimo exploit salviniano si iscrive nelle modalità dell’antipolitica cara a Matteo (ma, a volte, e purtroppo, anche al Matteo che sta a Palazzo Chigi, e ne riparleremo) ma che non l’ha condotto, metti a Milano e Varese, a grandi successi; anzi, più ha spinto l’acceleratore sull’antipolitica e più ha agevolato la vittoria della concorrenza grillina, in quanto assai più credibile di quella leghista. Antipolitica come dimensione e aggregazione oppositoria in nome dell’assioma dell’onestà scavalcando programmi e progetti fattibili, quando invece la politica che risiede, innanzitutto, nella capacità di offrire soluzioni di governo ai problemi, grandi e piccoli, di una società, di un Paese, di una Europa unita.
Il buon Salvini ha preferito le agevolazioni del cellulare per mostrare un problema piccolo ma con un che di pruriginoso, nel talk-show. Il talk-show, appunto, inteso come l’inizio e la fine di una certa politica se resta fine a se stesso, anche per via dell’audience concepita come passaggio obbligatorio per il successo alle urne. Si è visto che non è andata così in queste ultime elezioni, a cominciare da Milano dove la svogliatezza della Lega nel ballottaggio fra Parisi e Sala si è tradotta in una sua colpevole assenza alle urne, penalizzando il candidato del centrodestra, mentre l’eco faceva risuonare le parole d’ordine del talk salviniano per un voto alle candidate grilline a Roma e Torino. Difatti, Raggi e Appendino sono state elette. Parisi no. Non si vuole qui mettere sul banco degli accusati uno solo, anche se, per dirla con l’immortale Totò: “È la somma che fa il totale!”. Il punto dolente della campagna elettorale del centrodestra per il sindaco Parisi è stata ben diversa da quella del centrosinistra per Sala. Ieri l’altro, tanto per dire, è tornato a Milano il Premier a congratularsi con Sala promettendo qualche agenzia e altro. Ma anche e soprattutto nel corso della campagna Matteo Renzi si è fatto più volte vivo in città per aiutare, incoraggiare e “benedire” il suo sindaco. Sapeva e sa che avrebbe potuto perdere città come Roma, Napoli e persino Torino, ma mai e poi mai Milano. E così è stato. Viceversa, per Parisi non si sono visti accorrere al suo fianco leader grandi e piccoli, posto che il Cavaliere aveva davvero seri problemi di salute, ma gli altri? E poi, diciamocelo, ci sono? Chi sono? E vabbè. Non si vuole infierire, per carità. Semmai, qualche ragionamento sull’ordine di scuderia di votare contro Giachetti a Roma e contro Fassino a Torino in favore delle due “sindache” pentastellate, pur legittima in sé, ha mostrato l’altra faccia della medaglia antipolitica, quella peggiore. Sì, peggiore, se peggiore può ancora essere l’antipolitica: perché, nel caso in esame, pur seducendo per la voluttà vendicatrice contro il “nemico” di sinistra, annulla qualsiasi riflessione sul significato politico di una simile vittoria che “regalando” due sindaci a due città (e che città...) a Beppe Grillo, non è dissimile dalla celebre auto- amputazione del cornuto che ha sorpreso la moglie in flagrante adulterio.
La politica consiste anche e soprattutto nella lucidità di valutare le conseguenze, gli effetti di una decisione; in altri termini la politica è la capacità di pensare al dopo. E se il “dopo” si chiama Grillo, c’è poco da compiacersi delle opzioni dettate dalla voglia di battere il nemico di classe, che sieda o meno a Palazzo Chigi e che si chiami Pd. Giacché il nemico, quello vero, più insidioso, più numeroso e anche più furbo perché abile nell’insinuarsi nei giochi dei “boccaloni” di destra e pure di centro, ha un altro nome, un altro stile, un’altra allure. Si pensi alla questione del referendum, al sì alla riforma e al no. Ebbene, dalla Lega e Forza Italia, in là e in su e in giù, fino a D’Alema e Camusso, è tutto un urlo per il “No”. No alla riforma della Costituzione, no all’abolizione del Senato e, naturalmente, no al premio di lista. Il grido che si leva oggi non tiene però conto di un dettaglio: che c’è uno e uno solo dei soggetti politici oggi all’opposizione che si gioverà immensamente della eventuale vittoria di quel “No”. Per quel soggetto hanno già “dato” alle elezioni dei sindaci, gratis et amore dei. E alle prossime politiche si continuerà a lavorare per il Re di Prussia?
di Paolo Pillitteri