mercoledì 22 giugno 2016
Dopo il voto di domenica bisogna che qualcuno cominci a recitare il mea culpa per aver sottovalutato i Cinque Stelle. Catalogare il fenomeno grillino alla voce “populismi” è stato un errore. Altro che populista: il movimento è popolare. Come altrimenti si potrebbe definire una forza politica che a Tor Bella Monaca, quartiere romano di frontiera sociale, ha raccolto l’80 per cento dei consensi? Cosa mai accaduta prima. Segno che la proposta Cinque Stelle è stata giudicata credibile dalla gente. Segno che i grillini l’hanno saputa comunicare agli interessati. Segno che i vari Di Battista, Taverna, Lombardi e simili, l’armata Brancaleone che gli inquilini dei palazzi istituzionali avevano guardato con spocchiosa sicumera, hanno trovato le giuste chiavi per arrivare al cuore di un popolo tradito dall’arroganza della razza padrona radical-chic. Pochi, prima del tornado elettorale di domenica, avevano intuito che questa volta la partita sarebbe stata giocata nelle periferie, che la vittoria e la sconfitta sarebbero state decise lontano dalle Ztl delle strade-vetrina dei centri storici. A Roma, come a Torino, a Milano, a Napoli e a Bologna, dappertutto nelle grandi città. Il Partito Democratico non lo ha capito e ha duramente pagato l’errore. Non sappiamo se sia stata colpa esclusiva della hybris reziana o se, molto verosimilmente, trovandosi in fase di mutazione d’identità, il Pd abbia perso memoria del suo blocco sociale.
Il fatto che il piddino Roberto Giachetti abbia chiuso la campagna elettorale a sindaco di Roma con una festa vip organizzata al Ponte della Musica, zona Prati-Flaminio, non può essere derubricato a notizia di colore: è cambio di linea, è riposizionamento strategico di un partito che insegue la media-alta borghesia e gira le spalle ai ceti popolari nell’illusoria convinzione di cogliere il dato strutturale dell’espulsione del popolo minuto dalle dinamiche di costruzione del consenso. I Cinque Stelle hanno azzeccato la parolina magica che ha modificato la realtà: partecipazione. Termine desueto nel lessico della politica politicante. Convincere la “sora Mariuccia” che un cambiamento della qualità della vita individuale e comunitaria sia producibile attraverso l’espressione del voto è stata l’arma atomica escogitata dagli apprendisti stregoni grillini per far implodere un sistema di potere assolutamente autoreferenziale. Niente di fantascientifico, solo la scoperta della forza dirompente dell’acqua calda. Era dai tempi del teatro-canzone di Giorgio Gaber che la parola “partecipazione” non facesse capolino nell’ordinarietà della politica. Inchiodata a una parete del Museo delle Cere la “Partecipazione” avrebbe dovuto essere testimonianza di presenza delle masse lavoratrici nell’edificazione della società democratica. Ma la sinistra, autoproclamatasi titolare del suo copyright, l’aveva dimenticata, come spesso accade quando si tratta di anticaglie del passato. I Cinque Stelle l’hanno riportata alla luce e hanno provato a farla funzionare. Ora però tocca di affrontare la parte più difficile: corrispondere alle attese suscitate nella popolazione. Governare comunità complesse come quelle delle grandi città è arte assai complicata. Tuttavia, un eventuale successo gli aprirebbe scenari insospettati. L’opportunità di provare a sfrondare la macchina della pubblica amministrazione locale dai condizionamenti generati dall’ipertrofismo burocratico e dall’azione corrosiva degli interessi illeciti, li gratificherebbe della sostenibilità, in ottica nazionale, di ben altra equazione di governo. I grillini stanno gradualmente lasciando il piano del tradizionale confronto partitico per trasferire il loro progetto a un diverso livello, finora sconosciuto ai competitor. Se lo spostamento dell’asse dell’offerta politica dovesse avere successo il futuro del Paese sarebbe nelle loro mani. E degli odierni protagonisti, Matteo Renzi in testa, non resterebbe che uno sbiadito, sgradevole ricordo.
di Cristofaro Sola