mercoledì 8 giugno 2016
A proposito dei Cinque Stelle, il partito di Beppe Grillo domenica scorsa ha ottenuto almeno due risultati straordinari: quello di Roma con Virginia Raggi e quello di Torino con Chiara Appendino. Mentre del primo si era certi, il secondo invece è apparso sorprendente. Ma solo ai non addetti ai lavori. Era noto da tempo che i capi del movimento grillino fossero consapevoli di avere chance di successo, almeno al primo turno, in entrambe le piazze. E così è stato. Le ragioni sono presto dette.
Nella capitale i Cinque Stelle hanno camminato sugli scudi grazie ai misfatti di cui la vecchia politica si è resa responsabile. “Mafia capitale” è stata solo la punta dell’iceberg. Era inevitabile che la parte più esasperata della popolazione capitolina si tuffasse a corpo morto tra le braccia di una giovane promessa grillina. Virginia Raggi, di là dalle sue effettive competenze a svolgere il ruolo di sindaco di una grande metropoli, è l’involontario terminale di un’attesa messianica per un elettorato che, tradito dalla politica tradizionale, si rifugia nell’illusione accecante dell’inverarsi di un evento miracoloso salvifico. Laico e non religioso. Se la logica da ultima spiaggia dovesse confermarsi al ballottaggio, per il “kamikaze” piddino Roberto Giachetti non vi sarà possibilità di successo.
A Torino le cose sono andate in modo differente. La città non si presentava sconquassata come la Capitale. Più ordine, più pulizia per le strade, in complesso migliore qualità della vita. Tuttavia, sotto la cenere della normalità è covato il fuoco della rabbia sociale per una ripresa economica che non è arrivata, nonostante le promesse di Matteo Renzi. Ne è prova il fatto che nel capoluogo piemontese la disoccupazione giovanile abbia raggiunto livelli record. Poi, il Premier si è mostrato appiattito sulle posizioni di Sergio Marchionne, il quale non gode di molti fans nella Torino operaia e della piccola borghesia produttiva. Questa inappropriata liaison ha indubbiamente favorito la migrazione di una parte del consenso, in origine appannaggio al Partito Democratico, verso un’offerta politica alternativa ma collaudata. L’opzione Appendino non è affatto un salto nel vuoto. La candidata pentastellata low profile si è fatta le ossa facendo opposizione in Consiglio comunale e il suo lavoro è stato molto apprezzato. Questo aspetto rimanda a una considerazione più complessiva sulla modifica dell’approccio che politici, analisti e media dovrebbero avere rispetto al fenomeno Cinque Stelle. Finora si è parlato del movimento grillino descrivendolo come espressione dell’antipolitica. È stato vero in passato, ai tempi dei “Vaffa Day” e delle intemerate, farcite di improperi, del suo capo carismatico. Oggi non è così. La pattuglia dei giovani parlamentari pentastellati sta costruendo un percorso di alternativa di sistema tutt’altro che approssimativo. Dopo la fase di selezione darwiniana delle élite che ha prodotto il superamento dei rappresentanti della prima ora, più dogmatici e poco comunicativi, sono emerse alla guida del movimento leadership più compatibili con i profili istituzionali tradizionali.
È, dunque, in atto un processo evolutivo che porterà i “Cinque Stelle” a passare dallo stadio di movimento di protesta tout-court a quello di forza alternativa di governo. La trasformazione non è ancora compiuta. Tuttavia, la scelta tattica di non presentarsi all’odierna consultazione per le amministrative in tutte le realtà chiamate al voto ma di optare per una presenza mirata sulla quale concentrare gli sforzi denota una capacità strategica che sarebbe grave errore sottovalutare. A prescindere dagli esiti dei ballottaggi, i Cinque Stelle rappresentano una realtà consolidata della quale, in futuro, non sarà facile disfarsi. E questo, tanto per il Pd renziano quanto per il centrodestra che verrà, se verrà, è un problema. Un grosso problema.
di Cristofaro Sola