Tortora, 28 anni dopo

mercoledì 18 maggio 2016


Ventotto anni dopo. No, non parafrasando un romanzo dell’immenso Alexandre Dumas, ma la storia vera di un simbolo indimenticabile come Enzo Tortora, che ne resta di insegnamento, di lezione oltre che umana, politica? Di quell’evento sconvolgente e delle battaglie che suscitò in nome della verità, che ne è stato? Forse che il giustizialismo di allora, compreso quello mediatico, è finito? E il populismo a base di cappio, se ne è andato? E il linguaggio violento derivatone, è mutato? Quando mai...

La deriva linguistica, spia di populismi e giustizialismi, è la nuova invadenza nel territorio dello spettacolo offerto dalla Polis. Lo è da anni, nel linguaggio di una politica rimpicciolitasi proprio nella povertà della sua ontologia, per cui la sua mission è percepita, nella sintassi spezzettata da urla sovrapposte nei talk, come un’assenza, un vuoto, un buco nero riempito da un giustizialismo usato come clava, spesso contro i non perfettamente allineati dentro la setta/movimento dell’attuale Movimento Cinque Stelle. E la deriva riconfermata dalla battuta di Beppe Grillo a proposito del sindaco “pakistano” londinese e della Westminster da saltare in aria, è la punta di un iceberg, non meno inquietante del suo sottostante ghiaccio bollente. Il giustizialismo che va diffondendo il grillismo, con alla base un antagonismo covante un rancore respingente ogni visione liberale, è rivelatore di un mix assai preoccupante, laddove il caso Pizzarotti, dando il metro di misura del M5S a proposito delle garanzie per ogni cittadino, e quindi di un sindaco, ci catapulta nel Medioevo feudale in cui la giustizia era una concessione del “Signore”, caso per caso, a propria convenienza.

Solo che in questo rieditato Medioevo ci si dimentica della storia venuta dopo e magari di quell’antico direttorio rivoluzionario la cui odierna tragicomica clonazione pentastellata sembra prefigurare, a loro insaputa, il processo di autodistruzione per divoramento successivo che tanti drammaturghi ci hanno raccontato. L’arma del giustizialismo è a doppio taglio, è spesso un boomerang. Ma, si sa, la storia non è mai stata “magistra vitae”. Anzi. Difatti, e leggendo in questi giorni le drammatiche vicende del senatore Dell’Utri, in gravi condizioni di salute in carcere - con tanto di ritardo nella trasmissione di una risonanza magnetica - ecco che la storia si ripete. E chiediamo scusa se, ancora una volta (ancora!) ci viene voglia di gridare alto e forte “Pannella, ci manchi, come ci manchi!”. Sì, proprio e di nuovo lui, il grande vecchio dei referendum storici, della battaglie memorabili per la giustizia giusta, e le lotte per un carcere umano, le visite alle prigioni italiane - che i bravi radicali continuano, almeno loro, ancora oggi - e la indimenticabile, tragica vicenda di Enzo Tortora, l’emblema di tutte le battaglie per una giustizia che sia tale. E non lo è. Non lo è stata per il povero ma coraggiosissimo Enzo, non lo è tuttora nel caso Dell’Utri, ma non solo. Ed è probabile che non lo sarà nel futuro prossimo, al di là di qualunque buona intenzione, di qualsiasi colore governativo.

Appunto, i fallimenti dei diversamente “colorati” governi negli ultimi 20/25 anni la dicono lunga sull’invalicabilità della questione delle questioni, e non a caso, ricordando l’altra sera l’anniversario di Tortora, un importante “special” di Canale 5 ha insistito sulle frustrazioni costanti e ripetute che la mancanza di risposte serie alla questione giustizia stanno riproponendo, anniversario dopo anniversario. Il che ci riporta ad un clima, ad una condizione, ad una sorta di prigione ideale in cui siamo rinchiusi da troppo tempo (forse da sempre, aggiunge qualcuno) e sul cui portone spicca la scritta “Populismo”. Certo, il termine è polivalente anche perché la sua “radice” letterale - andare verso il popolo - nulla ha a che fare con la versione successiva per dir così “large”, ovverossia storica dimensionata nel Novecento e nel 2000 con tutte le sue derive antiliberali, antipolitiche, sempre dannose, sempre fallimentari: populiste, appunto. Ed è di questa sua presenza che occorre visitarne i danni e, al tempo stesso, le successive, attuali, visibili diversificazioni. Perché di divisioni vere e proprie si tratta all’interno dell’ambito dove convivono, più o meno, il centro, il centrodestra e la destra.

Non stiamo a relazionarvi sui dettagli, anche perché l’eccellente politologo/storico Orsina ne ha lucidamente sviscerato le attuali destrutturazioni, cogliendone appieno il significato politico. Che sta ritornando a casa nostra, nella divisione interna allo stesso ex Polo delle Libertà nella misura con la quale sia il Cavaliere che Parisi (a Milano e speriamo anche più “extralarge”) si distinguono nettamente da Salvini: da un lato il centrodestra dall’altro la destra. Una scissione vera e propria diffusa già prima che da noi italiani, all’interno degli analoghi movimenti populisti occidentali animati da indubbie e profonde motivazioni economiche, demografiche, psicologiche. Do you remember la Lega degli anni Novanta? E l’avvento di Silvio Berlusconi che, sulle ceneri dei partiti annientati dall’inchiesta del secolo, ricostruì una sorta di Dc o partito della nazione riuscendo a federare il secessionismo del leghismo esondante al Nord col suo paganesimo del Dio Eridano fulminante la stramaledetta Roma ladrona? Il fatto che l’attuale versione salviniana sia assolutamente capovolta rispetto alla precedente, mettendo al posto di Roma ladrona la non meno stramaledetta Ue, significa, oltre alle vistose contraddizioni politiche, il passaggio direi storico dalla formula di un secessionismo (fallito) ben ammorbidito nella attuale tramutazione di federalismo (fallito a sua volta) ad una nuovissima fase. Che si chiama “sovranismo” perché ribalta la questione separatista sia pur rimanendo saldamente ancorati al populismo, ma invocando il ristabilimento dell’indipendenza, dei confini nazionali da difendere anche coi muri, del “fare a nostro modo”, se necessario con le ruspe, contro la paura prodotta dalle profonde motivazioni di cui sopra. In primis la sicurezza per un’immigrazione/invasione le cui vittime non abitano nei centri storici eleganti e radical chic, ma le periferie dei quartieri popolari spesso e volentieri abbandonate. Ed è infatti la paura, questo oscuro, irrazionale ma pur potente ed evidente e diffuso motivo che spinge e alza l’onda lunga del “sovranismo”, italiano e occidentale. Salvini, che leader lo è, dà tuttavia l’impressione di scivolare come un surfista su questa onda non tanto agevolandola quanto utilizzandola e/o strumentalizzandola come potente strumento di propaganda, stavamo per dire di marketing, senza tuttavia pensare molto a come governarla.

Il governo delle situazioni complesse, e la nostra lo è al massimo grado, non ha bisogno di risposte semplici né, quel che è peggio, semplicistiche. Il caso di Milano è il segnale e il simbolo di un laboratorio politico nel quale Stefano Parisi ha cercato, fino ad ora con successo, di accogliere l’alleanza con la Lega - una strada peraltro obbligata per vincere su un Sala che debole non è - piegandola e ammorbidendola con una politica non soltanto impostata sul classico “fare” ambrosiano, quanto sulla capacità di governare la paura stessa, di razionalizzarla con interventi a salvaguardia della sicurezza di tutti i cittadini e della crescita del loro benessere. Intendiamoci, è una città che da sempre ha saputo cavarsela da sola, ma senza la cura speciale dalle paure esistenti rischia di mettere in discussione i suoi traguardi eccellenti raggiunti grazie al suo pragmatismo intrecciato alla solidarietà. Parisi ha come compagno di percorso, in questa “nuova alleanza”, lo stesso Maurizio Lupi che, et pour cause, un Bossi in controtendenza con Salvini, ha qualche giorno fa rimpianto come potenziale nuovo sindaco di Milano. Non a caso Lupi sta nella maggioranza (e prima addirittura nel Governo) di Renzi ed è questo un punto non secondario, perché essenzialmente politico. Perché non può non imporre e imporsi un cammino che faccia i conti non tanto o soltanto con la realtà, la forza e la storia della città di Sant’Ambrogio, ma con l’esigenza di porsi come alternativa politica credibile. E vincente.


di Paolo Pillitteri