martedì 17 maggio 2016
La politica, è noto, si alimenta con il consenso: e la Giustizia è un settore che difficilmente offre tale opportunità tranne che non si assecondino diffuse istanze securitarie alle quali vengono offerte soluzioni che – in genere – poco hanno a che fare con l’ars boni et aequi.
A comprova vi è un palinsesto di interventi, essenzialmente nel settore del diritto e del processo penale, che si propongono come meramente simbolici, espressioni di una torsione repressiva portata avanti tramite slogan e grida manzoniane approvate a colpi di maggioranza. Il risultato della frettolosa accondiscendenza verso pulsioni mediatiche ed emergenze reali o presunte non può essere che quella dell’imbarbarimento del sistema attraverso produzioni che sono il paradigma dell’approssimazione populista della legislazione.
Ed è in questo filone che si inseriscono i disegni di legge pertinenti la modifica della legittima difesa, volti a superare l’esigenza di bilanciamento tra natura del bene aggredito, modalità dell’azione offensiva e perimetro della reazione attribuendo all’aggressore una sorta di accettazione del rischio, quali che ne siano le intenzioni. Qualcuno dimentica, probabilmente, che il diritto alla salute - quindi alla integrità fisica ed alla vita stessa - è il solo che la Costituzione, all’articolo 32, definisce fondamentale: il che significa che esso è concepito come il presupposto del pieno godimento di tutte le altre garanzie costituzionali ed il cui sacrificio non può essere previsto se non a fronte della necessità di fronteggiare il rischio concreto di un analogo pregiudizio.
Altre riflessioni può indurre l’analisi della disciplina del cosiddetto “omicidio stradale”, nella quale non è dato comprendere le ragioni di un trattamento dispari del cittadino di fronte alla legge – postulato dall’articolo 3 della Costituzione – rispetto ad ipotesi analoghe di lesioni o morte cagionate per colpa: ad esempio, con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro o per negligenza medica e per le quali la dosimetria della sanzione è più mite nonostante la gravità oggettiva delle condotte; a tacer del fatto che, a causa dei limiti al bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, la norma in materia di lesioni colpose “stradali” può determinare un trattamento sanzionatorio più elevato per un incidente causato dopo aver bevuto una birra piuttosto che per un investimento volontario (e, a questa stregua, all’autore converrebbe confessare falsamente il dolo).
In materia di giustizia, però, il tema più attuale e propagandato dagli epigoni della presunzione di colpevolezza è la modifica della prescrizione mediante allungamento dei termini o interruzione definitiva del suo corso da un momento processuale dato in avanti. Il maggior numero di prescrizioni, statisticamente esorbitante e senza distinguere tra delitti e contravvenzioni, peraltro, matura nella fase delle indagini; dunque - tranne, forse, casi eccezionali - per scelta o inerzia del pubblico ministero, non di rado per direttive esplicite declinate dal capo dell’Ufficio circa la priorità da assegnare alla trattazione di taluni reati rispetto ad altri: tra questi, non di certo, quelli contro la Pubblica amministrazione sulla cui presunta impunità diffusa viene fatta leva. Un falso problema, dunque. Così come non è corrispondente al vero il riferimento, quale causa, a callidi stratagemmi dei difensori, che nel corso delle indagini non hanno nessuna possibilità di intervenire, volti a conseguire l’estinzione del reato per decorso del tempo.
Per vero, neppure nelle fasi successive la lentezza del processo, da cui può derivare la prescrizione, sembra ascrivibile a subdole manovre degli avvocati (le cui ragioni di rinvio, tra l’altro, ne interrompono il corso): un’estesa indagine Eurispes del 2008 ha rilevato, infatti, come il maggiore numero in assoluto dei differimenti delle udienze dibattimentali sia da riferire a difetti nelle citazioni, mancate presentazioni dei testimoni del pm, assenza del giudice titolare o altre problematiche di carattere amministrativo e burocratico. Ma tant’è, si vorrebbero dilatare i tempi del processo quasi che la sua ragionevole durata prevista dall’articolo 111 della Costituzione fosse tale solo se tendente ad infinito, come se il principio di rieducazione della pena dettato, invece, dall’articolo 24 non imponesse che un’eventuale condanna sia ravvicinata il più possibile alla commissione del reato per assolvere efficacemente alla sua funzione, evitando inutili afflizioni ad una persona le cui condizioni soggettive e di vita possono essere, nel frattempo, profondamente mutate.
Molto ci sarebbe ancora da dire sulle suggestioni di eliminazione del doppio grado di giudizio di merito, circa la proposta di legge sul reato di negazionismo che intacca la libertà di espressione, sulla ipotizzata estensione dei processi celebrati in videoconferenza che vulnera il diritto alla difesa e l’impiego nelle indagini dei più invasivi virus informatici con buona pace della garanzia primaria di riservatezza delle comunicazioni. L’imminente astensione di protesta degli avvocati aderenti all’Unione delle Camere Penali si incentra su più di uno di questi punti. Per ora fermiamoci qui con la considerazione amara che, forse, prima della sciatteria normativa, il problema con cui ci si deve confrontare è quello di una Costituzione dimenticata.
di Manuel Sarno