Un’altra strage degli innocenti cristiani

mercoledì 30 marzo 2016


Palmira è stata riconquistata. Da Bashar al-Assad con l’aiuto-determinante di Vladimir Putin. Non dai “caccia” di François Hollande, non dai droni bombardieri di Barack Obama, non dalla Nato e, figuriamoci, dall’Unione europea con le sue occasionalmente sbandierate radici giudaico-cristiane (ma non dovevano essere poste a base della Costituzione Europea?).

Palmira, come tutti sanno, è un’antica città dall’inconfondibile architettura dell’Impero Romano, e il suo custode era stato assassinato lo scorso anno dai mostri del Daesh, quando la occuparono mettendola a ferro e fuoco con massacri, profughi e devastazioni. Per di più aumentando il quoziente assassino delle stragi in Europa, e altrove. Ma attenzione, Palmira fu per secoli una città cristiana, in una “provincia” dell’Impero chiamata Siria, dove si mossero già subito dopo la morte di Cristo i primi apostoli, ma soprattutto dove Saulo-Paolo ebbe la folgorante conversione e, contestualmente, la geniale intuizione che il Cristianesimo non poteva e non doveva essere una religione soltanto ebraica, ma estendersi nel mondo. Che, allora, era Roma.

Le radici dell’odio, della violenza distruttrice, della voluttà sanguinaria del fondamentalismo islamico vanno fatte risalire a questa pagina che reca l’inconfondibile e simbolica impronta ebraica e cristiana, di Israele e di Roma, a questo grumo di accadimenti divenuti una fonte perenne di rancore per molti dello stesso Islam, che già al tempo di Maometto conquistarono Palmira, la saccheggiarono, la svuotarono e l’abbandonarono, fortunatamente, all’epoca, lasciando intatte le vestigia romane. Avevano già nei loro progetti la conquista del mondo infedele, naturalmente con le scimitarre “per passare a fil di lama le teste degli infedeli”, come recita il Corano. La connaturata fretta dei mass media non riesce a stabilire una comune lunghezza d’onda con i lettori, spettatori, fruitori di comunicazione di oggi. Peraltro i governi occidentali non dicono pane al pane e vino al vino, non si riallacciano, anche solo culturalmente, a quel passato da cui provengono, nel timore reverenziale di rievocare le Crociate e le memorie colonialiste, e par paura del “risveglio” dell’identità musulmana. Che, infatti, proprio alla vendetta per le sconfitte d’antan si ispira contro la civiltà occidentale, le cui radici giudaico-cristiane sono la ragion d’essere per noi. Ma la ratio autentica di un certo Islam per sconfiggerci.

Non occorre per i nostri governi riandare alle Crociate, il cui modello è non solo irripetibile ma già da allora perdente. Basterebbe ricordarci di quello che siamo, dei nostri valori, dei nostri ideali, delle nostre modalità di vita, di libertà, di democrazia, di capacità di satira laica, di distinzione fra religione e Stato. Contro questo “ensemble” di conquiste civili e politiche, il serpente Isis del cuore di tenebra avventa i suoi colpi di morte. Colpire la testa del serpente, direbbe un redivivo Churchill, tagliargliela, rendere orfani di soldi e risorse gli assassini che insidiano giorno dopo giorno le nostre conquiste di libertà e di convivenza. Ma, si sa, la politica ha i suoi tempi, le sue attese, le sue lacrime. Soprattutto le sue indifferenze non appena passata la “nuttata”. Silenzi sui cristiani uccisi, sui loro preti e vescovi, sui martiri, a centinaia, a migliaia, da anni e anni. Chi si ricorda più del vescovo cappuccino Luigi Padovese, assassinato sei anni fa in Anatolia dai fondamentalisti islamici? La salma arrivò in Italia, a Milano, senza la presenza di alcuna autorità, militare o civile, nemmeno ai funerali, con una folla immensa, commossa.

Dunque: che numero porta questa carneficina in Pakistan? Che numero di morti ha raggiunto questa strage di cristiani? E quanti sono i bambini maciullati? E le donne? E gli anziani? Strage degli innocenti, come si dice in questi casi. Quanti? Tanti, troppi! Eppure c’è da scommettere che gli stessi mass media, dopo le prime 24 ore di emozioni e titoloni, lasceranno perdere, così come i lettori si abbandoneranno ad altri trastulli, per dire. E le autorità? Beh, seguiranno a ruota gli esempi suddetti. È già accaduto e accadrà questo mood, questa modalità che assorbe gli impatti più tremendi dei notiziari, li elabora subito e li rispedisce nel dimenticatoio. È quello che si chiama la capacità di sopravvivere anche di fronte al più terribile degli annunci. Funziona così il nostro resistere al peggio. Eppure le esistenze umane hanno bisogno d’altro, sentono che, dentro di sé, c’è un’aspirazione, una spinta etica, una volontà di risalire dagli abissi della paura sospinti da un’ansia di riscatto ideale, prima ancora che materiale. Solo che qualcuno, qualche autorità superiore, spirituale e politica, ce lo deve sollecitare, risvegliare.

Sennò a che serve l’auctoritas, che è o dovrebbe essere un’entità condivisa e non obbligata, almeno in democrazia. Certo, Papa Francesco ha duramente condannato la strage pakistana ad opera dei talebani. Non li ha accusati apertamente ma, almeno, ha omesso la fin troppo facile, direi banale e impropria, accusa ai “mercanti d’armi” accampata in occasione dei di Bruxelles. Certo, la parola della suprema autorità spirituale cristiana ha un suo peso, purché l’indicazione dei responsabili veri di questa immonda mattanza venga chiamata col loro nome, la loro appartenenza politica e “religiosa”, le loro responsabilità dirette. Specialmente quelle indirette del corrispettivo establishment musulmano che, siatene certi, dopo qualche giaculatoria in difesa dell’Islam che non può non essere moderato in virtù del medesimo Dio Unico che ci accomuna, un Dio misericordioso e buono. Laddove, invece, cristiani e musulmani rimangono fedeli al rispettivo Dio perché sanno perfettamente che Dio e Allah sono diversi, distinti, e molto, molto distanti. Dopo la strage di cristiani in Pakistan, dovremo aggiornane la numerazione in attesa di altri massacri?


di Paolo Pillitteri