sabato 26 marzo 2016
Se quella in corso sia o no una guerra di religione è fin troppo ovvio. Il punto però è che questa guerra religiosa fra sunniti e sciiti si è trasformata in una guerra anche politica nella misura in cui il Califfato islamico si è impadronito di pezzi territoriali fino a formare un suo Stato. Assolutista e assassino di infedeli per legge divina. Dopodiché possiamo discutere fino alla nausea se l’integrazione sia avvenuta o no in un’Europa che ospita poco meno di una ventina di milioni di musulmani al suo interno (in Italia sono 2,2 milioni).
L’integrazione nel senso inteso dal politicamente corretto e dai cosiddetti musulmani moderati è un traguardo raggiunto quasi ovunque. Più a parole che nei fatti, basti pensare a Parigi e Bruxelles per accorgersi subito che i terroristi erano, sono e saranno figli di musulmani nati e cresciuti in Francia, Belgio, ecc., con regolare passaporto del Paese di nascita. Apocalittici dunque, più che integrati, assassini più che credenti nel Dio misericordioso. Poiché il numero dei fedeli al Corano abbisogna di luoghi di preghiera, le moschee, ecco che scattano da noi le leggi ispirate alla “libertà di religione garantita dalla messa disposizione di luoghi di culto nel quadro di una concezione laica, e in una situazione di pluralismo culturale e confessionale”. Sono parole della Suprema Corte che ha bocciato una legge restrittiva della Regione Lombardia a proposito di moschee. La proclamata incostituzionalità della scelta del Governatore Bobo Maroni ha acceso gli animi rinfocolando nella Lega, ma non solo, una polemica vertente, almeno nel comune di Milano, intorno al termine stesso di moschea, soprattutto da quando, ed è forse un ventennio, i luoghi di culto del Corano si sono allocati in negozi, seminterrati, marciapiedi e scantinati. E ciò non è un bene, per tutti, si capisce, credenti o meno, laici o integralisti. La questione è anche aggravata dall’aumento progressivo di questi “siti di preghiera” in alcune zone della città, via Padova e viale Monza, con il dettaglio non insignificante secondo cui questi “siti” portano nomi di associazioni culturali, centri d’incontro e amicizia e così via.
Infine, tanto per dare un contributo alla generale confusione italica, è piombata l’idea di Massimo D’Alema di ricorrere all’otto per mille applicato ai musulmani onde trarne risorse per nuove moschee a spese non statali. Una proposta irrealizzabile, oltre che surreale, data la mancanza di un centro unificatore della religione islamica con una frammentazione in cui ognuno recita le preghiere come vuole interpretandole a piacimento, il che non solo rende impossibile l’otto per mille ma impedisce quella reductio ad unum del pensiero islamico, che è a un tempo religioso e politico con una inscindibilità che favorisce la sharia, la chiusura in sé, l’autoghettizzazione ammantata di orgoglio. La laicità nel mondo dell’Islam è un pio desiderio, un wishful thinking, almeno fino a quando non investirà decisamente i luoghi della decisione politica di tanti Paesi islamici dove, al contrario, prevalgono pulsioni antioccidentali, antimodernità, antisecolarizzazione, antiglobalizzazione. Essendo il loro credo a sua volta un progetto di mondializzazione, l’urto diventa inevitabile. Anche perché l’espansionismo connaturato alla civiltà moderna occidentale si porta con sé, e li impone, modelli di tecniche, messaggi, valori, emblemi. E merci. È il mercato, bellezza! E siccome fra Occidente e Islam il gap socio-economico-tecnologico è cresciuto enormemente sì da apparire incolmabile, la conseguenza è la corrispettiva crescita della frustrazione, del rancore sordo e dell’ostilità contro gli “atei occidentali” in settori sempre più cospicui dell’integralismo musulmano e del fondamentalismo sfociante nel terrorismo.
Dire che l’Islam è tutto fondamentalista è un errore grave. E meno male che prevalgono le persone pacifiche, leali e rispettose. Ma il fatto è che dentro l’Islam il richiamo alla difesa dell’identità ricorrendo alla Guerra santa, seminando paura e strage di innocenti (infedeli), è sempre più forte. E se dunque smettessimo di invocare l’integrazione? È una sorta di parola magica, onnicomprensiva, obbligatoria soltanto da parte dei Paesi ospitanti. È diventata un richiamo alla mitologia piuttosto che alla fattualità, alla concreta realtà esistenziale.
Se invece parlassimo di convivenza? La convivenza si basa sulla condivisione di norme, leggi, codici e modelli comportamentali rispettosi non tanto o soltanto del cuius regio eius religio, ma della partecipazione ad una comunità nazionale della quale si condividono in toto le leggi di cui sopra, oltre che la lingua. Semplice ancorché difficile, la convivenza fa della laicità il punto focale, nevralgico, il discrimine fra Stato e religione. Che per molti musulmani è una divisione impensabile, inconcepibile. Forse bisognerebbe spiegargli, non solo in questo caso, che la colpa è loro.
di Paolo Pillitteri