giovedì 24 marzo 2016
Leggi sui pentiti, intercettazioni a strascico e grandi marce di popolo a sostegno politico e morale di chi guida le indagini, applica le leggi, decide le intercettazioni.
La formula per combattere il terrorismo di matrice islamista sembra già trovata. Basta imitare quanto è stato fatto nel nostro Paese prima contro il terrorismo rosso e nero e poi contro la mafia ed il gioco è fatto. Ma i sostenitori dell’applicazione dell’emergenza continua e del primato della magistratura inquirente come soluzione taumaturgica della lotta al fondamentalismo assassino non capiscono la differenza profonda tra i fenomeni del terrorismo politico interno, della mafia e dell’islamismo radicale all’assalto.
Non lo capiscono non per ignoranza ma per profondo ed inguaribile pregiudizio. La formula della repressione giudiziaria fondata sulle leggi speciali (quelle sui pentiti, sulle carceri dure, sulle intercettazioni a pioggia) ha funzionato ottimamente negli anni Settanta contro le Brigate Rosse ed il terrorismo neofascista. Ma ha lasciato zone d’ombra ancora tutte da scoprire. Ha funzionato poi meno bene anche contro la mafia. Tanto che in più di vent’anni di applicazione continua i suoi stessi fautori non fanno altro che sollecitare un nuovo e più forte impegno nella lotta alla criminalità organizzata. I punti non chiariti nella battaglia al terrorismo domestico e le difficoltà incontrate in quella contro la mafia hanno avuto la stessa ragione. I due fenomeni sono stati visti dai fautori della repressione emergenziale ad opera della magistratura come questioni puramente interne. Quando lo sguardo degli inquirenti si è rivolto all’esterno del cortile italiano, per capire ad esempio se le Br avevano rapporti e supporti internazionali e quanto mafia e ‘ndrangheta erano operative in Europa e nel mondo, si è sempre fatto buio pesto.
Ma il terrorismo da combattere oggi non è un fenomeno che si esaurisce nei grandi ghetti europei. In queste sacche di emarginazione e di ricerca disperata di identità alternativa ed antagonista a quella occidentale c’è il brodo di coltura dei kamikaze. Se non ci fossero organismi internazionali e Stati più o meno canaglia, questo brodo di coltura non esisterebbe. C’è dunque una differenza abissale tra il terrorismo nostrano degli anni Settanta, la mafia ed il terrorismo attuale. L’aspetto internazionale di quest’ultimo è dominante. Senza l’Arabia Saudita e la predicazione wahabita nelle moschee europee i ghetti francesi e belgi potrebbero essere più facilmente prosciugati. Senza l’ideologia fondamentalista del regime komeinista iraniano non ci sarebbero stuoli di martiri pronti a farsi saltare in aria in nome dei valori dell’islamismo radicale. Se non ci fosse il Califfato ormai esteso in Medio Oriente, in Africa ed anche nelle zone islamiche dell’Estremo Oriente non ci sarebbe il modello ispiratore per i giovani immigrati di seconda o terza generazione.
Purtroppo non basta imitare il nostro passato per vincere la battaglia in corso. Non c’è bisogno solo di repressione giudiziaria interna, ma anche di una forte iniziativa internazionale. Diretta da un lato ad impedire che ai ghetti si aggiungano anche i campi di concentramento per le masse dei nuovi immigrati destinate ad alimentare il brodo di coltura della rabbia identitaria. E dall’altro a costringere gli Stati canaglia, dal Califfato a quelli con cui l’Occidente fa affari, a fermare le loro diverse forme di aggressione ai Paesi della libertà e della democrazia.
di Arturo Diaconale