Roma/Milano: sapessi com’è strano...

martedì 15 marzo 2016


La cosa più gradevole, la più distensiva e infiorata di essenze primaverili, vista domenica a Milano, è stata la corsa in bicicletta delle ragazze musulmane cittadine con tanto di velo scontornante il viso. Perché? Innanzitutto perché c’era un Iman furibondo e tuonante, da un pulpito coranico risalente al primo medioevo, e talmente incazzato da minacciare fuoco e fiamme alle “peccatrici” su due ruote. E poi perché il o la jihab, il velo, era di uno standard da non sfigurare nella città capitale della fashion: tenuamente colorato, sportivo e vivace, come si dice qui: sgarzolino, come le fanciulle in fiore pedalanti gioiose come se fosse (e forse lo era) la prima volta. Detto questo, su aspetti del panorama elettorale, sarebbe proprio il caso di stendere un velo. Come a Roma, del resto.

Un velo “politico” su un panorama disastrato nel quale sono coinvolti un po’ tutti i partecipanti di una pre-gara elettorale davvero trash. Anche, e direi in special modo, almeno a Milano, dalle parti del nuovo, nuovissimo Movimento Cinque Stelle che con le sue rodomontate aveva minacciato missili e droni in partenza dalla tenebrosa postazione hitech casaleggiana, e invece... Invece nessun missile, salvo, forse, un drone con telecamera incorporata, planante nei pressi del circolo Arci in cui è andato in scena malinconico l’ultimo atto della discesa in campo della grillina Patrizia Bedori. “Non ce la faccio a sopportare le pressioni mediatiche, davanti ai giornalisti io soffro e pure in Tv, sono delusa anche dai miei, ciascuno deve sapere dove arrivare e io sono arrivata fin qui”. Applausi e lacrime. Uno spettacolo un po’ triste, umano e sincero quello raccontato dalla Bedori la cui ritirata dalla competizione era (almeno per chi vi scrive) nell’aria fin dal primo giorno. E non per colpa sua, chiariamo. La candidatura, e la sua autoarchiviazione, è il più vistoso spaccato della fiction che nessun genio della pubblicità politica avrebbe potuto spacciare come democrazia diretta.

Nessuno, a parte il due Casaleggio-Grillo verso i quali non riusciamo a nascondere una certa ammirazione se non altro per come sono riusciti ad abbagliarci e abbindolarci, prima ancora che a prendere caterve di voti. Per un “partito” populista e antipolitico che dice no a tutto e che vince solo per questo no (adesso c’è anche qualche “nì” politicante) non c’è alcun bisogno di consultazioni della base, tanto più se ridotte ai soliti happy few messi lì come specchietto per le allodole. La Bedori, persona rispettabilissima, era stata scelta da non più di trecento iscritti alle liste web vincendo per una cinquantina di voti: capolista M5S non al quartiere Gratosoglio o Quarto Oggiaro, ma al Comune della città di Milano, che è la città più città d’Italia. S’è capito subito che la brava donna, e lo diciamo senza alcuna ironia, era ed è una signora colta, placida, tranquilla, dedita tanto al partito quanto, sopratutto, alla famiglia, ma catapultata dal capelluto co-leader M5S a fare la capolista Milano.

Molta umiltà, molto understatement e tanto low profile, troppo per un partito che ambisce a scalzare tutti, da Milano a Roma. Ma la scelta non era della Bedori, ma dei capi in testa, a cominciare dal tenebroso Gianroberto che puntava sulla leggenda dell’“uno vale uno”, ma il cui silenzio assordante avvolgente una candidatura cui non poteva essere estraneo ne ha svelato la machiavellica furbata da marketing politico, anche per venire in aiuto alla mancanza del phyfisique du ròle. È probabile che nei disegni dei vertici grillini la città di Milano non sia mai stata un obbiettivo raggiungibile. In tal caso, il fatto è ancora più serio e riguarda innanzitutto le modalità da Scientology d’antan nella scelta dei candidati fatta passare come una conquista della volontà degli iscritti, questi ridotti a quattro gatti, soprattutto nell’assenza clamorosa di cittadini votanti, suggerendo alle vendette mai sopite renziane il richiamo sferzante alle tecniche infantili dei luna park. E il bello è che a Milano, il campo da arare da parte di un M5S sfasciacarrozze ne aveva davanti a sé, se pensiamo alle difficoltà della “sinistra della sinistra” incapace, fino ad ora, di esprimere un candidato competitivo-alternativo a Giueseppe Sala.

A Roma, tuttavia, è accaduto il contrario nel M5S. Qui la scelta di Virginia Raggi ha trovato persino in Silvio Berlusconi una valutazione più che positiva, forse col pensiero rivolto al caos della sua più o meno ex alleanza nella Capitale. Dove le ambizioni di Matteo Salvini si intrecciano con divisioni vere e strumentali, anche dopo l’affermazione, sia pure a corsa solitaria, di Guido Bertolaso.

Visto da Milano, il quadro romano è quanto di peggio potesse offrire una destra che non può non sapere che le si spalancano baratri davanti ogni qual volta prevalgono personalismi e ambizioni. Di Salvini parlammo di ambizioni sbagliate, non certo moraviane, ma politiche. Fremente d’impazienza di imporsi sul berlusconismo per spostare all’estrema destra un’alleanza sullo schema lepeniano, dimentica nella fretta che per vincere nella Capitale, e altrove, ci vogliono alleanze compatte, e convinte di vincere, grazie ad un candidato unitario. E per vincere occorrono i voti di tutti a cominciare da quelli del Cavaliere, a Roma, e non solo. Invece assistiamo allo spettacolo di un tiro alla fune alla fine del quale, se continuerà, il meno che si possa verificare è la sconfitta del centrodestra romano. E il massimo? La ricaduta politica della corda spezzata sulla Milano di uno Stefano Parisi, unitario certamente, ma bisognoso dei voti di Salvini. Un bel rebus. Sapessi com’è strano l’asse politico Roma-Milano.


di Paolo Pillitteri