giovedì 10 marzo 2016
Mentre negli Stati Uniti si infiamma il dibattito su Donald Trump possibile candidato dei repubblicani e Hillary Clinton controparte democratica nella sfida alla Casa Bianca, il centrosinistra italico è costretto a celebrare il flop delle primarie a Roma. Il premier affida ai giornali amici il solito, attentissimo, spin e questi lasciano intendere senza mezze misure come il vero vincitore delle primarie dem vada cercato a Palazzo Chigi. Gli elettori del Nazareno, infatti, avrebbero confermato tutte le scelte suggerite o imposte da Matteo Renzi: Giachetti a Roma, Valente a Napoli, Cosolini a Trieste (quest’ultimo via Serracchiani) Quel che non è ancora apparso in tutta la sua cristallina evidenza è quanto irrilevanti siano, dal punto di vista politico e numerico, queste primarie.
Mettiamo in ordine qualche cifra. A circa 24 ore dalla chiusura dei seggi (e anche qui ci sarebbe da discutere in tema di trasparenza) siamo riusciti a capire che alla primarie per la scelta del sindaco di Roma hanno partecipato poco più di 47mila persone. È tanto o poco? Per capirlo è utile confrontare questo numero con l’intera popolazione residente nella Capitale con chi nel 2012 ha scelto Ignazio Marino al secondo turno. I votanti alle primarie rappresentano l’1,6 per cento dei romani e il 7,1 per cento degli elettori di centrosinistra che scelsero l’ex sindaco.
In qualsiasi assemblea del mondo, anche quelle di condominio, è difficile ritenere significativo quello che pensa una cifra compresa tra il 7 e il 12 per cento degli interessati. Negli Stati Uniti, a cui gli osservatori italiani rinfacciano sempre una scarsa partecipazione al voto, alle primarie del South Carolina si sono messi in fila ai seggi 738mila repubblicani chiamati a scegliere sette candidati tra cui Trump, Cruz e Rubio. Un numero che rappresenta il 68,9 per cento di chi nel 2012 preferì Mitt Romney a Barack Obama e il 15,1 per cento della popolazione, bambini inclusi, residente nello Stato. È chiaro che una partecipazione dieci volte superiore a quella fatta registrare a Roma lascia pochi dubbi su quali siano le primarie vere e quali invece una semplice conta tra correnti.
Il South Carolina non è un’eccezione perché il centrodestra a stelle e strisce porta alle urne un milione di persone in Virginia (il 56,2% degli elettori del Partito Repubblicano nel 2012 e il 12,2% dei residenti) e addirittura 2,8 milioni di persone in Texas, uno Stato dove la conformazione geografica e la scarsa presenza di centri urbanizzati rende la partecipazione particolarmente difficoltosa. Nonostante questo, però, il 62 per cento degli elettori repubblicani si è recato ai seggi per scegliere il proprio candidato alla corsa per la Casa Bianca.
Si dirà che si tratta dell’effetto Trump. Non è così: anche i democratici, nonostante stiano vivendo una stagione di primarie tra le più noiose e meno partecipate di sempre, riescono a mobilitare una fetta consistente del proprio elettorato. Si è messo in fila per votare, infatti, il 39,7 per cento di chi votò per l’asinello alle presidenziali 2012 in Virginia, il 42,7 per cento in South Carolina e il 43,3 per cento in Texas. Numeri che confermano la tendenza americana a portare alle urne circa la metà della base elettorale interessata alla scelta. Dimensioni numeriche che garantiscono credibilità al processo di scelta, competizione e soprattutto legittimazione: è molto raro, infatti, che gli sconfitti alle primarie pensino, come immagina la sinistra capitolina, di intraprendere partite in proprio perché non riconosco appieno il responso delle urne.
Quelle che il Partito Democratico ha celebrato domenica non possono essere definite primarie, non per chi ha un minimo di dimestichezza con questi temi. Si è trattato, al massimo, di un congresso 2.0: una versione pop e scanzonata delle vecchie adunate che hanno fatto la fortuna di molti maggiorenti della Democrazia Cristiana o del Partito Comunista. E infatti, puntualmente, sono riapparse le accuse di brogli, di voti comprati, di truppe cammellate. Una promessa, quindi, Renzi l’ha mantenuta: il suo partito ha certamente cambiato verso. Peccato che abbia scelto di imboccare la strada che riporta tutti ai bei tempi andati della Prima Repubblica.
di Andrea Mancia e Simone Bressan