mercoledì 9 marzo 2016
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea, tenuto alla presenza del premier turco Ahmet Davutoglu, è stato una débâcle. Per bloccare il flusso di migranti, la Turchia pretende in cambio più soldi di quelli precedentemente concordati, la liberalizzazione dei visti d’ingresso all’Unione per i suoi cittadini e l’accelerazione della procedura di adesione all’Ue. In cauda venenum, il premier turco ha chiesto “uno sforzo congiunto per migliorare le condizioni umanitarie all'interno della Siria che permetterebbero alla popolazione locale e ai rifugiati di vivere in aree che saranno più sicure”.
La Turchia vuole l’appoggio dell’Ue per mandare il proprio esercito in territorio siriano a spezzare la linea di continuità delle forze combattenti curde che stanno consolidando le posizioni lungo la frontiera turco-siriana. I leader europei, messi inopinatamente davanti al ricatto turco, sono in stato confusionale. L’iniziativa di Davutoglu li ha colti impreparati. Ma non tutti. La signora Angela Merkel conosceva in anticipo le nuove proposte di Ankara, avendo negoziato per suo conto con l’esponente turco. Evidentemente, il fatto che la maggioranza degli altri partner europei potesse non condividere le nuove intese è stato valutato, dalla cancelliera tedesca, un ininfluente aspetto di dettaglio.
A Bruxelles è andata in scena la plastica rappresentazione di una “pièce” tra 28 nani, da una parte, e un gigante, la Turchia, dall’altra. I vertici di Ankara, cogliendo la debolezza del contesto europeo, hanno alzato il prezzo della collaborazione. Bisogna ammettere che non siano loro il problema ma lo sia questa Unione che non è stata capace di aggredire unitariamente le cause che hanno provocato la devastante crisi migratoria. Ora che la situazione è sfuggita di mano, pur di evitare l’invasione, i “28” hanno creduto che fosse conveniente “comprare” i servigi della Turchia. Il presidente Erdoğan e il premier Davutoglu sono stati al gioco ma, seguendo la logica di mercato, hanno riformulato l’offerta in base all’accresciuto peso della domanda. Nessuna meraviglia, dunque, che la lista delle richieste si sia improvvisamente allungata. Tuttavia, il nodo della questione sta nel valutare fin dove la debolezza europea possa giustificarne un cedimento incondizionato. La Turchia, a differenza di questa Unione politicamente sconnessa, coltiva un chiaro disegno strategico di lungo respiro. I tremebondi leader convenuti a Bruxelles dovrebbero cominciare a chiedersi: cosa ne farà Erdoğan di tutti i soldi che riceverà dalla Ue? Li investirà per migliorare le condizioni di vita nei campi profughi o li utilizzerà per foraggiare gli estremisti islamici che combattono le truppe di Bashar Al Assad in Siria? E ancora, il forzoso abbraccio con l’Europa nasconde forse il tentativo di trascinare l’Unione in uno scontro frontale con la Russia di Putin? Dopo il demenziale comportamento occidentale nella crisi ucraina e l’aumento della pressione su Mosca, fomentato dalle paranoie dei partner baltici, si rischierebbe un altro passo in avanti verso lo scoppio definitivo della Terza guerra mondiale.
Questa Turchia, negatrice dei fondamenti culturali che sostengono l’identità europea, chiede di far parte dell’Unione europea. Se ciò le venisse accordato sulla base di un ricatto, cosa ne sarebbe della nostra coesione, già gravemente vulnerata dall’insorgenza di nuove pulsioni nazionaliste? La Turchia autoritaria e islamista di Erdoğan non sarà mai Europa, nel senso alto del termine. Piegarsi a un diktat potrebbe agevolare la soluzione di un problema nell’immediato ma, alla lunga, precipiterebbe il Vecchio Continente in uno stato di conflittualità analogo a quello che innescò, all’inizio del Novecento, la Grande Guerra. Ma la macchina della storia può innestare la retromarcia? Lo sapremo il prossimo 17 marzo, quando i leader europei dovranno ratificare le promesse rubate, ieri l’altro, da Ahmet Davutoglu.
di Cristofaro Sola