martedì 8 marzo 2016
Non per entrare a piedi uniti nel dibattito “guerra sì, guerra no” alla Libia. Per carità. Ci vorrebbe uno stregone, altro che la zingara o il mago Otelma nel labirinto creatosi sulla quarta sponda. A parte il fatto che ci vorrebbe un esercito in tutto e per tutto, il tema della guerra è sempre stato, per dir così, dibattuto da sempre, e poi, alla fine, la guerra c’è sempre stata: ricordiamo il 1915 e prima ancora l’invasione, appunto, della Libia.
Il punto è tuttavia un altro e va analizzato in riferimento alla inconsulta intervista dell’Ambasciatore americano secondo cui l’Italia doveva fare immantinente la guerra all’Isis in Libia, secondo la teoria della Clinton che teme l’insediamento e il rafforzamento nella Sirte o giù di lì di una città fortezza di quell’Isis in ritirata dalle basi siriano-irachene pluri-bombardate, grazie anche al combinato disposto di Putin, Curdi, ecc.. Del resto non fu la stessa Hillary, nel 2011, ad entusiasmarsi dell’eliminazione sanguinolenta di Gheddafi parafrasando il De bello Gallico con “We came, we saw, he died!”, venni, vidi, morì! Modesta, vero? Dal disastro successivo la coppia Obama-Clinton si tenne praticamente in disparte, pur avendolo provocato inducendo il nostro Cavaliere a subire controvoglia quel diktat, quando, forse, bastava dire un bel “no”, chiaro e tondo, alla coppia guerriera, a Napolitano e a quel Sarkozy che anelava sostituirci laggiù. Dire no agli Usa non è facile, ma qualcuno l’ha fatto, magari a Sigonella trenta e più anni fa. E ci si ricorda di quel no proprio perché indicava l’assunzione di una responsabilità non divisibile, unica, dovuta a chi ha il senso della propria Nazione nutrendo un principio inalienabile di autonomia e di difesa dei propri cittadini.
Ora, quanti giorni sono passati dall’intervista di cui sopra? E quante risposte contradittorie ne sono state dette e stradette in giro per i talk-show? Tante, troppe, forse vere, forse inventate, forse depistanti. Fra cui quella del corpo di spedizione speciale, al servizio della nostra intelligence. Eppure, bastava un semplice: “Sono affari nostri!” per evitare una sommatoria di incertezze che, pure, si soffermava con sgomento sul dopo 2011, quando “l’armiamoci e partite” obamiano preludeva al loro disinteresse per il Medio Oriente post-primavere, ormai in fiamme e devastato, sì da rendere l’Italia e l’Europa una discarica di un mondo letteralmente alla deriva. Finché domenica scorsa dalla instancabile Barbara d’Urso (non in un comizio di piazza, non in Parlamento, figuriamoci) il nostro Premier ha scandito quel fatidico “no!”, ma dopo la morte dei due italiani a Sabratha e il salvataggio degli altri due. Non entriamo nei dettagli di due vicende inquadrate nell’autentico rebus libico: due governi, trenta tribù, cento parlamentari, l’Isis in funzione, centinaia di padroni della guerra in giro per città devastate, i pozzi dell’Eni ambiti da locali e governi “amici”, ecc.. Renzi ha escluso l’intervento militare (boots on the ground), compreso quello dei 5mila specialisti (ma non erano già partiti e arrivati a destinazione?), ha assicurato la previa discussione in Parlamento e ha siglato il tutto con un “noi mai in guerra”, che pare più una griffe per felpe da Primarie che un’assicurazione da comandante in capo, come ha voluto farsi “decretare” qualche giorno fa. Niente di male, ovviamente.
Tuttavia, la lettura del fondo dell’ottimo Molinari su “La Stampa” dall’emblematico titolo (“Da Tripoli più pericoli per l’Italia”) dovrebbe suggerirgli un’attenzione grande, grandissima. Perché, se il Premier, per guadagnare tempo, ha fatto bene a invitare alla prudenza e alla cautela in queste settimane, apparendo simile al Ferrer del Manzoni con l’indimenticabile “Adelante Pedro, con juicio!”, adesso farebbe meglio, molto meglio, sulla scorta di quel “fondo” a proposito di una nuova dottrina della sicurezza, a ragionare su scelte che riguardano direttamente il nostro Paese, la sua difesa, compresa quella dei suoi cittadini qui, ma anche laggiù in Libia, insieme agli interessi vitali che ivi ci premono.
Ragionare fuori dai cascami delle ideologie contrapposte fra guerrafondai e pacifisti non può non approdare, prima o poi, ad una presa d’atto: l’Isis non è affatto imbattibile sul terreno ma per disattivarla occorre sconfiggerla davvero, cioè con un esercito di terra. L’Isis è più pericolosa con gli attentati e i kamikaze “esogeni” che nelle occupazioni barbariche “endogene” in Siria, Iraq e ora in Libia. Si capisce che ci vuole equilibrio, buon senso, assunzione di responsabilità. Compresa, soprattutto, quella di avere un esercito comme il faut. Oggi lo è? Hic Rhodus, hic salta!, caro presidente. Magari da Giletti, dall’Annunziata, dalla Gruber, da Paragone, da Porro. E un passaggio da Crozza, mi raccomando! Hai visto mai?
di Paolo Pillitteri