giovedì 4 febbraio 2016
Nelle festicciole casalinghe in voga negli anni Sessanta spopolava il gioco della candela. Funzionava così: partita la musica, le coppie danzavano passandosi una candela accesa. Chi, alla fine del brano musicale, restava con la candela tra le mani doveva fare penitenza. La Conferenza di Roma di ieri l’altro tra i 23 Paesi della coalizione anti-Is quel gioco lo ha ricordato molto da vicino. La sensazione tratta, di là dalle frasi di circostanza, è che la candela accesa, almeno sulla crisi libica, sia rimasta appiccicata alle mani italiane.
Il governo Renzi ha fatto di tutto per defilarsi da ogni assunzione di responsabilità nella guerra all’Is. La preoccupazione di contraddire l’ideologia pacifista di fondo che lo ispira ha fatto aggio su ogni altra valutazione. Il refrain governativo è stato: l’Italia renziana non fa guerra a nessuno, neppure ai nemici più ostinati che promettono morte e distruzione. Gli alleati di Washington hanno avuto finora molta pazienza con l’inquilino di Palazzo Chigi. Con toni quasi sempre soft hanno spiegato in tutte le salse agli interlocutori italiani che in Libia c’è un problema e che tocca all’Italia risolverlo.
Di recente, visti i fallimenti rimediati percorrendo esclusivamente la via del negoziato, Barack Obama sta diventando nervoso, perciò pretende che si passi a un’azione più incisiva. Ma qui sorge il problema. È opinione diffusa tra gli esperti che non vi sia alternativa all’intervento militare. Solo la politica romana finge di non comprenderlo. Ora però il tempo sta per scadere perché le milizie legate allo Stato islamico stanno conquistando altro terreno nel Paese nordafricano, per questa ragione il capo della diplomazia statunitense, John Kerry, si è scomodato di persona per venire a dire al governo italiano una cosina semplice, semplice: datevi una mossa. Kerry non ha parlato solo per Washington ma ha interpretato il disagio vissuto dalle altre cancellerie europee che vedono con terrore l’avvicinarsi della primavera. Con l’arrivo della buona stagione riprenderanno gli sbarchi dei clandestini sulle coste italiane. Le previsioni dicono che il 2016 sarà l’anno dell’esodo biblico: milioni di africani cercheranno di entrare in Europa attraverso la Libia. Quindi senza un intervento in loco, che non potrà limitarsi all’impiego di poche unità speciali d’élite delle nostre forze armate, si rischia una seria crisi nei rapporti, già oggi non certo idilliaci, tra Roma e il resto dell’Unione europea. Messo alle strette, il ministro degli Esteri italiano continua a nascondersi dietro l’ultima foglia rimasta appesa al carrubo libico. Paolo Gentiloni insiste nel subordinare la decisione d’intervenire alla costituzione di governo di unità nazionale da insediare a Tripoli che faccia esplicita richiesta d’aiuto ai paesi della coalizione anti-Is. Domanda: e se l’accordo tra le fazioni in guerra non dovesse concretizzarsi, che si fa? Si resta a guardare l’avanzata degli jihadisti tagliagole? A quale tacca Renzi ha fissato l’asticella dell’intervento italiano?
Se qualcuno a Palazzo Chigi, come alla Farnesina, pensa di cavarsela con l’invio dei soliti addestratori sperando che siano le truppe locali a fare il grosso del lavoro anti- Is, se lo scordi. Sono troppo preparati i miliziani dello Stato Islamico e troppo sgangherate le milizie tribali, perché si possa sperare in un successo fatto in casa. Senza gli uomini e le armi occidentali i soli libici non riusciranno a sbarazzarsi della malapianta del califfato che ha messo radici indiscriminatamente nelle sabbie desertiche e nelle città della Cirenaica, della Tripolitania e del Fezzan. L’affare libico è principalmente nostro: tocca a noi metterci le mani. Se Renzi e i suoi, avviluppati nei grovigli di uno stucchevole buonismo, non dovessero sentirsela d’agire non gliene faremmo una colpa a patto che si levino di torno e lascino il posto a chi abbia il coraggio di fare ciò che va fatto.
di Cristofaro Sola