“Mafia Capitale”: il processo della svolta

martedì 27 ottobre 2015


Hanno perfettamente ragione quei giornalisti dell’“Espresso” e de “Il Fatto” secondo cui il processo a Mafia Capitale è destinato ad avere un significato ed un valore simile a quelli del primo maxiprocesso alla mafia celebrato nel 1986. Cioè il Processo di Palermo, preceduto dal pentimento di Tommaso Buscetta, che portò alla sbarra più di quattrocento imputati in gran parte successivamente condannati anche in Cassazione e che rappresentò il primo momento di applicazione nell’azione di contrasto alla mafia di quel modello di legislazione emergenziale che tanto efficacemente aveva funzionato durante gli anni di piombo contro il terrorismo interno.

Fino ad allora la responsabilità penale, anche per quanto riguardava i mafiosi, era considerata personale. Da allora ad oggi, per quanto riguarda la mafia, la responsabilità di chi opera all’interno di una associazione mafiosa non è più soltanto personale ma anche collettiva, in quanto aderente al gruppo criminale. Per cui al mafioso non si applicano le norme e le procedure investigative e processuali a cui sono sottoposti i cittadini che compiono reati non rientranti nelle fattispecie emergenziali, ma norme e procedure più rigide e restrittive previste per combattere i fenomeni di particolare gravità sociale.

Perché il processo a Mafia Capitale può essere paragonato a quello di Palermo? La risposta è semplice. Perché, nelle intenzioni di chi lo ha istruito, segna il momento in cui la legislazione prevista per combattere la mafia viene applicata per combattere la corruzione. Non esiste una equiparazione in termini legislativi tra mafia e corruzione. I due fenomeni sono distinti e separati. Ma esiste una cultura dominante che attribuisce ai fenomeni corruttivi una pericolosità sociale uguale, se non addirittura superiore, ai fenomeni mafiosi. Ed è sulla base di questa cultura dominante che la Procura di Roma ha istruito un processo ai vari Buzzi, Carminati e loro complici o presunti tali che identifica i loro reati come reati di stampo mafioso e si appresta a dare vita ad un precedente che porta automaticamente ad eliminare le distinzioni tra corruzione e mafia e ad estendere la legislazione emergenziale a gran parte della società italiana. La Camera Penale di Roma ha protestato contro le riduzioni di garanzie processuali previste nella normativa antimafia applicate ai danni degli imputati (ad esempio l’uso delle videoconferenze che evitano la presenza in aula dei sottoposti a giudizio). E ha denunciato in massa tutti quei giornalisti, compresi i loro direttori, che hanno pubblicato atti riservati ma funzionali all’obiettivo della pubblica accusa di equiparare la corruzione romana alla mafia siciliana.

La Procura di Roma non ha replicato alla Camera Penale. Ma in compenso si sono mossi i giornalisti espressione di quella cultura giustizialista e populista che preme per la piena a completa equiparazione tra mafia e corruzione e l’estensione della normativa emergenziale all’intera società italiana. Ed i penalisti che vogliono difendere i diritti degli imputati sono stati accusati di difendere i reati e di essere dei mafiosi di complemento.

Una polemica del genere avrebbe dovuto campeggiare a lungo sui media. Perché non riguarda un processo particolare o la sorte di questa o quella categoria, ma il modello di società che si va preparando per il nostro Paese. Invece un silenzio mortale è caduto sulla vicenda. A conferma che, per aiutare le Procure a fare le indagini ed i giornalisti a fare carriera, il rischio di ritrovarsi nella Repubblica dell’emergenza generalizzata, dei diritti dimezzati e delle garanzie dimenticate, stia diventando una inquietante realtà.


di Arturo Diaconale