venerdì 27 febbraio 2015
La legge sulla responsabilità civile dei giudici non è un provvedimento contro i magistrati, come ha sostenuto l’Associazione Nazionale Magistrati. È, più correttamente, un provvedimento in favore dei cittadini, magistrati compresi. Perché allarga anche alla categoria delle toghe quel principio di responsabilità personale che riguarda qualsiasi individuo risieda o si trovi sul territorio nazionale. E perché incomincia (e solo timidamente) a ridimensionare nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana quel pregiudizio che si è radicato negli ultimi vent’anni secondo cui la categoria dei magistrati costituisce una casta intoccabile che, per questa sua caratteristica, non può assicurare terzietà, l’equità e l’imparzialità richiamate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Sbagliano, allora, quei magistrati che in questo provvedimento che giunge con alcuni decenni di ritardo sul referendum seguito al caso Tortora si chiudono a difesa corporativa della categoria o, peggio, si stracciano le vesti denunciando il rischio di aggressione al ruolo sacrale delle toghe. Perché è solo attraverso la progressiva eliminazione delle cause del pregiudizio che gli italiani nutrono nei confronti di chi amministra la giustizia che i magistrati possono recuperare la fiducia e la credibilità della società in cui operano. L’immunità, praticamente assoluta, di cui le toghe hanno goduto negli ultimi decenni ha alimentato la sfiducia, ridotto la credibilità, instillato nella coscienza civile la sensazione di non poter usufruire di un sistema di giustizia giusto. Con la Legge Buemi si può incominciare ad invertire la rotta avviando un processo che, però, non si può esaurire solo con questo provvedimento. Molto si deve ancora realizzare prima che la fiducia popolare in una giustizia non più di casta ma giusta ed imparziale possa essere recuperata. L’impresa non passa solo attraverso nuovi provvedimenti legislativi volti a questo fine ma, soprattutto, attraverso una sorta di rivoluzione culturale che deve coinvolgere in primo luogo gli stessi magistrati e poi l’intera società italiana. Si tratta, in sostanza, di passare dall’epoca del giustizialismo a quella delle garanzie non per pochi privilegiati ma per tutti.
Si tratta di una rivoluzione copernicana? Certamente. Ma non c’è alternativa al rischio di scivolare progressivamente verso uno stato di polizia che insistere sulla necessità di tornare allo stato di diritto!
di Arturo Diaconale