sabato 6 dicembre 2014
Dopo la tempesta emotiva suscitata dallo scoppio del bubbone capitolino, è opportuno porsi qualche domanda. Posto che la giustizia debba fare il suo corso, cercando di non trascurare i diritti degli indagati, chiediamoci se quest’indagine possa favorire qualcuno a danno di altri.
Fuori dal coro un po’ ipocrita dei tanti “l’avevamo detto” del giorno dopo, la vicenda si è trasformata in una resa dei conti tutta interna al Partito Democratico. Lo si rileva da alcuni indizi. Nelle ultime ore a parlare è stato Renzi. Dalla minoranza interna soltanto un silenzio assordante. Il Premier ha calcato la mano sulla necessità di “fare pulizia” al proprio interno. Poteva tentare una difesa d’ufficio dei suoi, visto che gli inquirenti avevano individuato l’epicentro del fenomeno corruttivo nell’ambito della giunta di centrodestra di Gianni Alemanno. Ma non l’ha fatto.
Se il Procuratore capo della Repubblica, Giuseppe Pignatone, ha riferito dell’esistenza di un groviglio criminale di stampo fascio-mafioso, è stato il leader piddino ad accentuare il carattere consociativo dello scandalo dicendo chiaramente che il suo partito non poteva chiamarsene fuori. Perché questo bisogno impellente di autodenuncia? Cui prodest? Per capirci qualcosa bisogna guardare alla struttura organizzativa del Pd. Renzi lo ha sì scalato, lo scorso anno, ma lo ha fatto dall’esterno avvalendosi della forza di spinta del voto delle primarie. L’organizzazione, nonostante le defezioni e le improvvise “illuminazioni sulla via del Nazareno”, è rimasta fortemente condizionata dall’ala storica di matrice ex-comunista. Bersani, Fassino, D’Alema, Cuperlo, Veltroni hanno ancora voce in capitolo nella vita interna del partito e, per caduta, anche in quella dei gruppi parlamentari formatisi prima dell’avvento renziano. Il Pd, nel suo radicamento territoriale, ha goduto del sostegno strategico di due azionisti di riferimento pesantissimi: la Cgil e la Lega delle Cooperative. Queste realtà, estremamente dotate dal punto di vista economico-patrimoniale, sono formidabili poli aggregativi del consenso, determinanti per il consolidamento del blocco di potere del centrosinistra. Matteo Renzi, nell’anno della sua gestione, ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso il peso del loro condizionamento. Ma lo stato di permanente interferenza dei due partner sull’azione di governo lo tiene penzolante a un filo troppo sottile. Tanto la Cgil quanto la Legacoop, manovrando la leva elettorale dell’astensionismo, potrebbero fargliela pagare per i suoi ripetuti tentativi di forzare la mano nel disconoscimento degli equilibri consolidati.
Si prenda il caso dell’Emila Romagna, dove sia la Cgil sia la Legacoop hanno un elevato bacino di iscritti. Se non fosse che la destra è allo sbando totale, il candidato renziano sarebbe uscito dalla consultazione con le ossa rotte. È evidente che al Premier una presenza così ingombrante faccia paura e quindi voglia vederne drasticamente ridotto l’ascendente nei rapporti interni con i militanti e con i quadri dirigenti del partito. Se, adesso, la magistratura dovesse allargare il tiro dalla Capitale ad altre aree del Paese, probabilmente il primo a gioirne sarebbe Matteo Renzi. Se lo scandalo montasse a dovere, potrebbe andare in televisione e proclamare urbi et orbi un’illibatezza che nella realtà non esiste. Potrebbe impunemente dichiarare che lui è il nuovo che rottama il passato senza guardare in faccia a nessuno, a cominciare dai suoi, che tanto suoi non sono. Sono per lo più degli altri. Dei Bersani, dei D’Alema e compagnia cantante. Attendiamoci sviluppi, forse clamorosi ma certamente non inattesi.
Alla fine della fiera si scoprirà che questa sinistra sarà un po’ più renziana di quanto lo sia oggi. Almeno è questo che spera il cinico fiorentino, contando in un aiutino insperato dal ciclone giudiziario.
di Cristofaro Sola