giovedì 4 dicembre 2014
Gianni Alemanno ha assicurato che “uscirà a testa alta” dall’inchiesta in cui è stato coinvolto. Ed il Procuratore Giuseppe Pignatone, pur rilevando che le indagini hanno evidenziato responsabilità di “uomini” vicini all’ex sindaco di Roma, ha indirettamente avallato l’affermazione dell’esponente della destra romana sostenendo che la sua posizione “è ancora da vagliare”.
Ma se anche gli accertamenti dei magistrati dovessero consentire ad Alemanno di uscire a testa alta, la gravità dello scandalo che ha sconvolto la Capitale non verrebbe minimamente diminuita. Non solo perché il marcio che è stato portato alla luce non ha sporcato solo la parte politica legata all’ex sindaco, ma ha toccato anche quella opposta del sindaco attuale. Ma perché questa storia di mafia ed ex Nar capaci di condizionare indifferentemente le amministrazioni locali di destra e di sinistra s’intreccia con quella altrettanto clamorosa ed inquietante del senatore del Pd Di Stefano. Ed insieme fanno tornare di strettissima attualità il famoso titolo dell’inchiesta di quasi sessant’anni fa di Manlio Cancogni: “Capitale corrotta, nazione infetta”. Rispetto ad allora, però, c’è un gigantesco aggravante. Cancogni sosteneva che la speculazione edilizia nella Capitale rappresentava un germe destinato ad infettare l’intero Paese.
Oggi si può tranquillamente affermare che l’infezione partita da Roma nei decenni passati è tornata a Roma dopo aver impestato l’intera società nazionale e riprende a manifestare proprio nella Capitale la sua fase di massima virulenza. Non ci deve essere limite alla denuncia di questo marciume ed alla richiesta che il germe della corruzione venga estirpato chiunque ne sia il portatore. Ma non ci si può limitare a denunciare e ad salutare con soddisfazione l’azione purificatrice della magistratura. Bisogna anche indicare le cause che da sessant’anni a questa parte rendono il fenomeno sempre più grave. Perché se si pensa che tutto si possa esaurire nelle inchieste delle Procure si finisce, magari inconsapevolmente, nel lasciare intatte le ragioni dell’infezione e nel consentire che il morbo si perpetui all’infinito. Queste ragioni si annidano essenzialmente nelle amministrazioni locali, che per essersi dilatate a dismisura nel corso degli anni sono diventate deboli e permeabili a qualsiasi condizionamento, pressione, minaccia. La mafia prospera dove lo Stato è debole. E la forza dello Stato non si misura con il gigantismo delle sue strutture, ma con la capacità delle istituzioni di imporre la propria autorità ed assicurare l’applicazione corretta della legge nei confronti di tutti i cittadini.
A Roma lo Stato è debolissimo così come lo è in tutte le altre amministrazioni locali del Paese, a partire dalle regioni a finire con i più piccoli comuni. Basta una lobby organizzata ad imporre le proprie condizioni ad istituzioni divenute tanto elefantiache quanto inconsistenti. Se poi al posto delle lobby arriva una organizzazione criminale minimamente funzionante, mafia, camorra, ‘ndrangheta o banda della Magliana che sia, il condizionamento diventa sottomissione e correità totali.
Serve, allora, una riforma radicale delle autonomie locali. Per combattere la malaria bisogna innanzitutto eliminare le paludi. Lo stesso vale per la corruzione ed il malaffare. Per eliminarle bisogna bonificare le strutture locali divenute infette. Più si tarda e più l’impresa diventa disperata!
di Arturo Diaconale