mercoledì 19 novembre 2014
Non è solo una buona idea, ma è soprattutto un atto obbligato il progetto di ricostruire l’unità del centrodestra ed arrivare a presentare una lista unica capace di mandare in fumo il disegno renziano di dare vita ad un regime monopartitico.
I numeri dimostrano che se Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia, Nuovo Centrodestra e Popolari per l’Italia si mettessero insieme potrebbero addirittura insidiare il primato di un Partito Democratico che nei sondaggi e nel sentimento comune perde consensi ed è comunque lontano dal 40,8 per cento delle elezioni europee.
In termini politici, poi, un blocco del genere, proprio perché potenzialmente in grado di essere effettivamente alternativo al Pd, potrebbe diventare credibile agli occhi di quell’elettorato moderato che alle ultime elezioni si è rifugiato nell’astensione per delusione e per mancanza di fiducia nella vittoria. Tutto bene e tutto fatto, allora? Proprio no. Perché se il punto d’arrivo del centrodestra è fin troppo chiaro visto che l’alternativa al ricompattamento è solo la marginalizzazione rispetto al regime del partito personale di Matteo Renzi, la strada che dovrebbe portare a questo risultato, pur essendo ancora tutta da definire, appare già segnata da enormi difficoltà.
La principale è rappresentata dall’esperienza negativa del Pdl. Chi ci è passato non intende ripetere l’errore di dare vita ad un partito leaderistico in cui tutte le diverse componenti sembrano avere come unico impegno quello di prepararsi al momento della scomparsa del leader. Il primo a non voler ripetere l’esperienza dovrebbe essere proprio Silvio Berlusconi. Che ha sperimentato sulla propria pelle quanto sia difficile e spesso amaro tenere insieme persone unite solo dall’esigenza di non perdere il potere e, quindi, pronte ad ogni trasformismo pur di prepararsi a conservarlo in caso di mancanza del leader per via giudiziaria o per ricatto economico. Ma anche gli esponenti degli altri partiti molto difficilmente sarebbero disposti a rientrare in un organismo unitario in cui il loro peso non può essere calcolato come nel sistema correntizio dei partiti della Prima Repubblica e viene lasciato alla discrezionalità del leader o alla capacità di condizionarlo. E se questo vale per i partiti minori, a maggior ragione il discorso della ricomposizione unitaria del centrodestra non può riguardare la Lega. Che ha sempre difeso la propria autonomia e che con la cura Salvini sta assumendo un ruolo ed un consenso sempre più ampi nella scena politica nazionale.
Sembra evidente, allora, che l’idea del partito unico presenti troppo controindicazioni per essere effettivamente realizzabile. Meglio pensare ad uno strumento diverso che applichi la vecchia formula del marciare divisi per colpire uniti e che arrivi al risultato di rilanciare il centro destra come alternativa di Governo a Renzi tenendo conto delle autonomie di tutti. Questo strumento non può che essere la federazione delle forze politiche decise ad opporsi al regime monopartitico ed a difendere il valore ed il meccanismo della democrazia dell’alternanza.
Anche la federazione, che comunque difficilmente potrebbe coinvolgere la Lega, costituisce un risultato non facilmente raggiungibile. Le ragioni delle fratture del passato sono ancora in piedi e non possono essere rimosse facilmente. Ma se la strada per la federazione è stretta, quella per il partito unico è preclusa. Di conseguenza, non c’è altro da fare che lavorare in questa direzione, a partire dalla legge elettorale!
di Arturo Diaconale