I numeri impietosi e i segnali preoccupanti

giovedì 13 novembre 2014


Alle prese con il tema infinito della legge elettorale, il circo mediatico dell’informazione ha quasi snobbato un dato economico, elaborato dall’Istat, piuttosto preoccupante: la produzione industriale di settembre, dopo il rimbalzino di agosto, ha registrato un calo di quasi 3 punti. Meno 2,9 per cento rispetto allo stesso mese del 2013.

Ora, se consideriamo la produzione industriale un elemento molto significativo – a mio avviso più del Prodotto interno lordo – per tastare il polso di un’economia di mercato, questo ennesimo crollo dimostra, al netto dei surreali annunci del Governo Renzi, che il Paese avrebbe bisogno di una vera scossa per risollevarsi. Una scossa che, come spesso ci ricorda la componente più realistica dell’Europa, non può essere realizzata a colpi di nuovi debiti e di redistribuzione di un carico fiscale insopportabile.

Dato che l’Italia, assai più di altri importanti partner comunitari, soffre da decenni di una crisi sistemica sempre più stringente, la risposta non può essere quella che sta maldestramente cercando di dare il premier fiorentino. Se la nostra economia, come appunto testimonia la discesa verticale della citata produzione industriale, non riesce a creare un sufficiente valore aggiunto, occorre rimuovere le cause di tale, evidente declino, evitando di continuare a raccontare favole autoconsolatorie, evocando complotti e gufaggi da parte di nemici immaginari.

A grandi linee, come mi trovo a ripetere da anni, in Italia l’eccesso di statalismo assistenzialista portato avanti da gran parte delle forze politiche dal Dopoguerra, ha gradualmente e inesorabilmente squilibrato il sistema economico, restringendo la platea di chi produce valore di mercato a vantaggio di chi tale valore consuma.

Ora, la rappresentazione numerica di questa drammatica condizione è data da una spesa pubblica che ha oramai superato il 55 per cento del reddito nazionale, da una pressione tributaria allargata feroce e da un indebitamento reale – ben superiore a quello già spettrale dello Stato centrale – mostruoso. Tutto questo determina una condizione strutturale drammatica, nella quale le forze produttive decrescono a vantaggio di una dilagante platea di cosiddetti tax consumers.

Di fronte a questa catastrofe economica e sociale, il cui punto d’arrivo si chiama default, occorrerebbe parlare chiaro al Paese, così da poter introdurre le dolorose ma sempre più necessarie riforme. Riforme le quali, al contrario dei miracolistici provvedimenti messi in campo dall’Esecutivo dei rottamatori, puntino gradualmente a ridurre l’estensione e i costi dell’attuale perimetro pubblico. Ciò, in soldoni, significa mettere le mani nei grandi capitoli del bilancio pubblico: previdenza, sanità e pubblico impiego.

Ovviamente, così com’è accaduto altrove, per seguire questa impopolare linea occorre avere il coraggio politico di un vero statista, barattando il rischio di perdere tutto il consenso pur di salvare il Paese. Esattamente ciò che non sta perseguendo un Premier attento solo, assai più di chi lo ha preceduto, a capitalizzare nel breve periodo le sue irrealizzabili promesse. Come dimostra, ahinoi, l’ennesimo riscontro negativo dell’Istat, vendere solo fumo e speranze non può che portarci sempre più velocemente verso l’inferno.


di Claudio Romiti