giovedì 13 novembre 2014
Non so se la battuta sia nuova, ma di certo dà l’idea: “Se Al Bano ha fatto pace con Romina, anche Silvio Berlusconi la farà con Angelino Alfano”. Deve essere stato nel duetto di Matteo Renzi con Bruno Vespa dell’altra sera che il paragone, non del tutto inverosimile, ha colorato di rosa uno scenario non allegro, con quello sfondo del fango assassino in Liguria e altrove.
Altro che macchina del fango, se quello vero, limaccioso e immanente nel Bel Paese, potrebbe riportare i protagonisti del teatrino della politica ad un minimo comun denominatore di buon senso. Ma si sa, prevale spesso il senso comune in quest’Italia che sta scherzando col fuoco, col fango e col dissesto idrogeologico, metafora quanto mai indicativa del reale stato delle cose. Ed è come se l’accelerazione offerta dalle dimissioni di Giorgio Napolitano accentuasse il senso tragico della situazione politica, a parte, beninteso o per fortuna, le battute felici a “Porta a Porta”, le articolasse sull’indecifrabilità delle ultime mosse di quel Matteo che una ne fa e cento ne pensa (ma quell’incontro di maggioranza è, forse, la prima mossa falsa, perlomeno sempre negata prima, del Premier).
E a parte, e per fortuna, le voci diciamo così extrapolitiche che si susseguono, in ogni rischio di crisi tendenti a suggerire, consigliare, placare, come direbbe il sommo Alessandro Manzoni, “a lenire, sopire, allontanare il fuoco dalla paglia”. Probabilmente se non certamente Fedele Confalonieri, quando ha da dire la sua, rivela non solo, o non tanto, uno sfondo interessato essendo il presidente di Mediaset e, contestualmente, l’amico più sincero di Berlusconi, quanto, soprattutto, una lungimiranza - nel senso di vedere oltre la siepe, oltre lo “status quo”, oltre persino il partito del Cavaliere - che gli consente qualche buon consiglio. Niente di più e niente di meno. Ma non è poco.
Il punto vero che sta emergendo è la necessità, direi l’obbligatorietà, di un percorso avviato già con l’elezione di Napolitano, con le larghe intese di Enrico Letta, poi bruscamente interrotte dal doppio errore, delle dimissioni di Berlusconi dal Senato imposte da un clamoroso errore politico del Partito Democratico, Renzi compreso, e dalla rottura di Alfano da Forza Italia “imposta” dal Cavaliere. Diciamo doppio errore per facilità di ragionamento, anche perché c’è stato un secondo tempo, l’attuale, nel quale la rimessa al centro del tavolo politico di un Berlusconi “impicciato” è dovuta sicuramente all’intuizione di Renzi, ma anche ai buoni consigli, alle riflessioni pacate, ai suggerimenti sempre di un Fidel che, insieme alla parte meno scatenata di FI ha imboccato un binario su cui corre questo treno. Delle riforme, peraltro a metà.
Un treno guidato da Renzi, il quale è del tutto consapevole che senza l’apporto determinante del Cavaliere la sua “Frecciarossa” rischierebbe di sbattere o di fermarsi in mezzo ad una galleria. Un tunnel ad alta pericolosità “grillesca”. Soprattutto per Berlusconi, il quale ha fatto tesoro del suggerimento di ricucire con Raffaello Fitto e di riunire Forza Italia, un po’ per forza un po’ per “ammuina”, a mostrare la “faccia feroce” al diktat renziano, pur sapendo, e noi con lui, che il problema di fondo non è l’unità di FI, peraltro mai messa in dubbio da Fitto. Non è neppure il tandem Romina-Al Bano parificato alla coppia scoppiata Berlusconi-Alfano. E il risiko delle percentuali di accesso, il due il tre il quattro il dieci o venti per cento è un diversivo, un divertissement, non appartiene alla realtà effettuale della politica.
Intanto, tutta Forza Italia, dopo la scissione di Alfano, sa perfettamente che il partito non è né scalabile, né “primarieggiabile” e neppure modificabile. Fi è e sarà Berlusconi. Inizio e fine, come negli Evangeli. Lui e solo lui è l’uomo al comando. Come Renzi, del resto, suo “alunno” prediletto. “Madame Bovary c’est moi”, direbbe Gustave Flaubert, “si parva licet”. Stando così le cose, sia Renzi che Berlusconi hanno davanti un’unica via, diciamo pure ferrata, che è per entrambi sia una scommessa che un obiettivo. Con la differenza che il Premier dà le carte per un’agenda di certo concordata ma costretta, come ora, a fare i conti con l’uscita di Napolitano, con l’alea sia dello stop al cammino riformatore, sia con lo spauracchio delle elezioni anticipate. Ma quali? Con che sistema elettorale? Quando? E, soprattutto, perché? “Cui prodest” ritornare alle urne, con un Quirinale rinnovato (oggi noi scommettiamo sull’outsider Mario Draghi)?
Tutti sanno che la riforma elettorale sarà pronta, se andrà bene, fra un paio d’anni e mezzo. Tutti sanno che l’Italia economica sta male, come il territorio che si sfarina ad ogni bomba d’acqua, tutti sanno che l’antipolitica di Beppe Grillo è sempre lì a latrare e a divampare. “Last but not least”, i più attenti, a cominciare dal presidente di Mediaset, sanno che lo snodo immediato ma decisivo, cui non si può mancare, è l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Oggi il Cavaliere ha un Premier diciamo pure amico, che è già qualcosa. E sul futuro inquilino del Quirinale è pensabile che Berlusconi rimanga estraneo a tale scelta, fondamentale? Ed è immaginabile che dentro il percorso delle riforme non debba essere compresa una simile decisione? Abbiamo già dimenticato lo spettacolo devastante della Casta (giuriamo di non pronunciarla più!) nella primavera del 2013? Meditate gente, meditate. Ah, la dote della lungimiranza!
di Paolo Pillitteri