Quando e quanto contano i dettagli

martedì 28 ottobre 2014


Il diavolo, si sa sta nei dettagli. E sta pure, e soprattutto, nella tivù. Spesso ciò che resta di una domenica in televisione, ovverosia della metabolizzazione televisiva della giornata politica, si nasconde in un angolo, si coglie in un frame. Nel dettaglio, appunto. Specialmente la domenica 26 ottobre necessitava di un attimo fuggente da cogliere nella frenesia di immagini che percorreva sia il teleschermo che il “fatto/evento” ripreso e frammentato fino al limite fisico dello spazio concessoci. Fino, cioè, alla saturazione.

In questo senso, l’evento della Leopolda cui si contrapponevano gli echi “cigiellini” dell’oceanica manifestazione del sabato, ha coinciso in tv con l’impronta impressagli non da ora da Matteo Renzi, il segno personalissimo e riconoscibile della fretta, della corsa, della frenesia. Ne è uscita l’immagine complessiva della schizofrenia nel senso più ampio e dunque metaforico del termine: la divisione, la discrasia di due eventi, di due mondi, di due Italie.

Osservando più attentamente la doppia kermesse, risaltavano i rossi di Susanna Camusso, un vintage iscritto nel déjà vu, una realtà tanto concreta quanto statica nel tempo. L’opposto alla Leopolda, dove l’accumularsi e il diversificarsi di tavoli e interventi, subivano l’accelerazione del medium accentuando quel senso di “bella confusione” da cui estrarre, ove possibile, un senso di marcia, un punto fermo. Meglio, un punto di riferimento. Il dettaglio. Questo tipo di narrazione si è rispecchiata nel “Gazebo” sempre godibile peraltro, ma, questa volta, represso come da una forza esterna invitante ad aggiungere nuovi colpi di pennello all’affresco della dicotomia politica in atto. Prima, però, c’era stata la visione, peraltro non poco piacevole, di una Maria Elena Boschi sollecitata in un faccia a faccia di cui resta un fotogramma, un momento magico, una battuta: Renzi somiglia di più ad Amintore Fanfani che a Enrico Berlinguer. Il tutto (Renzi/Lepolda) in una risposta pacata ma convinta. Un’illuminazione, un faro acceso.

Cosicché, saltabeccando sui rami della cosiddetta “riflessione” serale tv, l’eco di quell’antico nome, l’evocazione fanfaniana, ritorna. Non a caso il cavallo di razza della Democrazia Cristiana (Dc) - l’altro era Aldo Moro - veniva soprannominato il “rieccolo”. Non a caso, perciò, il suo nome è risuonato in coda al “Report” di Milena Gabanelli. Allorquando è apparsa, come una silhouette, un’icona del tempo di prima: Arnaldo Forlani. Un novantenne eppur lucido leader, cresciuto con Amintore, sempre felpato, sempre sobrio, sempre morbido, ma sempre attento, addirittura puntiglioso a difendere la propria storia, a precisarla, a non sfuggirne le cadute ma, semmai, motivandole e, nel caso della supposta uguaglianza della corruzione di prima con quella di oggi, fermissimo nel ributtare la palma nel campo avverso, segnalandone l’enorme diversità. E poi, anche Arnaldo si lascia convincere volentieri al giudizio sul giovane Matteo. Ed anche l’ultimo simbolo del Caf non si trattiene, anzi, come un consumato attore del set politico, se ne esce col suggello finale: Renzi è un nipotino di Fanfani. Due dettagli come indizi sono una prova? La prova che è tornata la Dc? No, due dettagli non lo significano, non lo possono né confermare né certificare.

Il passato non torna, la storia non si ripete. Semmai, quell’eco fanfaniana avvolgendosi su Renzi, ha aggiunto un altro colore al complesso arcobaleno di una mutazione in corso, di un divenire complesso, contradditorio, di una corsa. Una corsa contro il tempo, contro il vintage, contro il déjà vu. Schizofrenico, certo, ma non più statico. Nevrotico, a volte, costretto a viaggiare come un treno nella notte: nella notte burocratica, nell’oscurità tecnocratica di un’Europa arcigna, nascosta dietro l’inesplicabilità crudele delle cifre. “Last but not least”, un ultimo attimo fuggente colto al volo ne “La Gabbia” di Gianluigi Paragone. Non più evocazioni nel segno della nostalgia, semmai, col marchio della provocazione, che rimane pur sempre un valore aggiunto quando non resta a metà, non si chiude nei propri fini. Come il gatto che gioca col topo, la tosta intervistatrice è riuscita a fare andare fuori dai gangheri l’icona renziana per eccellenza, l’Oscar Farinetti dell’eccellenza del gusto, del “politically correct”. Un dettaglio politicamente scorretto, eppure significativo. Perché non consente, quando è necessario, che tutti i salmi finiscano in gloria. To be continued...


di Paolo Pillitteri