giovedì 9 ottobre 2014
I magistrati palermitani hanno conseguito il loro obiettivo. Con il processo sulla trattativa non volevano accertare se la trattativa tra Stato e mafia ci fosse effettivamente stata o se fosse giusto o sbagliato che lo Stato venisse a patti con la criminalità organizzata. Volevano stabilire il principio che a gestire la trattativa non dovessero essere la polizia, i carabinieri, i servizi, gli amministratori o il Governo ma solo ed esclusivamente la magistratura stessa. Puntavano, in sostanza, a fissare il primato delle toghe nell’ordinamento dello Stato. E la richiesta di testimonianza del Presidente della Repubblica era perfettamente funzionale al conseguimento di questo risultato. Perché se anche il massimo rappresentante delle istituzioni repubblicane si fosse sottoposto alle regole della legge senza deroghe di sorta, sarebbe stato di fatto sancito il primato di chi amministra la giustizia nel sistema politico nazionale. L’interrogatorio a cui i magistrati palermitani sottoporranno prossimamente Giorgio Napolitano chiude apparentemente il cerchio. E stabilisce in anticipo l’esito del processo sulla trattativa. Prima ancora di sapere se quest’ultima ci sia stata o meno o se sia stata giusta o sbagliata, è stato stabilito l’ordine gerarchico dello Stato. In primis le toghe, il resto di seguito.
Ma nel perseguire senza esitazioni o prudenze di sorta il loro obiettivo, i magistrati palermitani non hanno calcolato i danni collaterali della loro marcia impetuosa. Non hanno considerato che in nome del diritto dell’imputato di essere presente al proprio processo, diritto che se venisse negato renderebbe nullo il processo stesso, al Quirinale entreranno non solo l’ex ministro ed ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino ma anche, sia pure non fisicamente ma in collegamento video, i capi mafia Riina e Bagarella. Questi ultimi, attraverso i loro avvocati, potranno interloquire direttamente con il testimone Napolitano. Che però non è un cittadino qualunque o solo un politico di lungo corso ma è , a stare alla Costituzione, il massimo rappresentante delle istituzioni. Con il risultato che agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale la Repubblica Italiana e la Mafia avranno entrambe la maiuscola ed appariranno poste sulle stesso piano. A dimostrazione plastica non del primato della magistratura ma della contiguità esistente nel nostro paese tra istituzioni e criminalità.
Si possono evitare questi danni collaterali provocati dalla pervicace e cieca volontà dei magistrati palermitani di sancire ad ogni costo la loro superiore autorità su ogni altro settore dello stato? Al momento non c’è alcuna possibilità di scongiurare un evento del genere. Anche perché accanto all’obiettivo del primato alcuni magistrati sostenuti da precise forse politiche da tempo si battono per dimostrare non solo la contiguità ma anche l’identità tra Stato e mafia.
Ma messo in conto che l’Italia repubblicana si appresta a vivere una delle pagine più buie della propria storia, quella che appaierà i capi della Mafia al capo dello Stato, bisogna incominciare a denunciare come la pretesa di primato assoluto manifesta da alcuni settori della magistratura stia determinando il rischio di trasformare lo stato di diritto in stato criminale.
La posta in palio non è solo l’immagine personale di Giorgio Napolitano, che pure viene sporcata ingiustamente dalla presenza al Quirinale di Riina e Bagarella. È il futuro della Repubblica che non potrà essere di certo radioso se le sue istituzioni democratiche continueranno ad essere sottoposte agli avventurismi di ogni genere di un segmento incontrollato ed incontrollabile come la magistratura senza responsabilità di sorta.
La denuncia non punta a “normalizzare”, come diceva Massimo D’Alema. Punta a risvegliare nella classe politica la consapevolezza che il primato della legge nello stato di diritto non è il primato di chi le leggi le applica ma di chi le realizza. Senza questa consapevolezza non c’è possibilità di sfuggire al destino della criminalizzazione dello stato e dei suo cittadini!
di Arturo Diaconale