sabato 6 settembre 2014
Il Governo Renzi contro il tradizionale blocco sociale della sinistra? Non si è capito bene se sia stata frutto di ingenuità la dichiarazione della ministra Marianna Madia, secondo cui la decisione del Governo di non procedere al rinnovo dei contratti per gli statali deve essere considerata come una presa di distanza dai dipendenti pubblici e dai loro sindacati. Cioè da quella parte della società nazionale che da sempre è stata un serbatoio di voti per i partiti della sinistra italiana. In realtà la Madia è stata fin troppo chiara nel dichiarare che l’atto del Governo è stato il frutto di una scelta ponderata. Motivata dalla volontà di uscire dai confini limitati del proprio elettorato per compiere una operazione trasversale rivolta a sostituire il patto tradizionale e ristretto tra sinistra e pubblico impiego con un patto molto più ampio tra il Governo riformatore e le nuove generazioni prive di prospettive per il futuro.
L’ingenuità, dunque, non è della Madia. Ma, semmai, di chi pensa che un atto di così ampia rottura tra sinistra e il proprio blocco sociale si sarebbe dovuto consumare non con una battuta pronunciata nel corso di un dibattito alla Festa dell’Unità, ma al termine di un lungo processo di approfondimento all’interno del partito. Ma i tempi in cui la sinistra doveva macerarsi prima di rinnovare le proprie posizioni sembrano essere ormai tramontati. E la conferma che la Madia non ha compiuto una avventatezza ma ha fornito il segnale di un profondo cambio di strategia è venuta dallo stesso Matteo Renzi con la sua polemica nei confronti dei capitalisti italiani del “salotto buono” e con l’annuncio della sua mancata partecipazione alla riunione annuale che proprio i frequentatori del “salotto buono” tengono a Cernobbio.
L’assenza con polemica del premier dall’incontro tra i “soliti noti” che contano nel nostro Paese è il segno inequivocabile della rottura del Governo Renzi con il blocco sociale della sinistra. Per alcuni decenni la sinistra politica ha avuto alle proprie spalle l’accordo tra la sinistra sociale radicata nel pubblico impiego e nelle grandi fabbriche ed i capitalisti che attraverso i sussidi di stato tenevano aperte queste fabbriche e garantivano la pace sociale. Non c’è bisogno di risalire ad Agnelli e Lama per indicare il fenomeno. Basta ricordare il sostegno dato dal Pd al governo Monti dei tecnocrati e dei poteri forti per sottolineare come il blocco sociale a cui ha sempre fatto riferimento il partito di cui Renzi è il segretario è sempre stato formato dagli apparati pubblici e dai capitalisti capaci di essere tali solo con i soldi dello Stato.
Agli occhi di chi ha sempre denunciato l’anomalia rappresentata da una sinistra di classe sostenuta dai “padroni” arricchiti dai soldi dei contribuenti, la rottura operata da Renzi non può non essere salutata con soddisfazione. Anche perché questa rottura dimostra come il cambiamento passi obbligatoriamente per il superamento del compromesso di potere tra gli “occupatori” e gli “sfruttatori “ dello Stato. Ma la soddisfazione non impedisce di sollevare una questione di rilevante importanza per il futuro. Il governo che rompe con il blocco sociale della sinistra continua ad essere il governo espressione del principale partito della sinistra? Ed il segretario del Pd che è anche il capo del Governo artefice della rottura può continuare ad essere il rappresentante del partito del blocco sociale ripudiato?
È probabile che alla base della scelta di Renzi e del suo governo ci sia il successo alle elezioni europee assicurato da una base sociale molto più ampia di quella tradizionale della sinistra. Ma quanta di questa base potrà essere conservata il giorno in cui il vecchio blocco sociale della sinistra si renderà conto di non essere più rappresentato da questo Governo?
di Arturo Diaconale