mercoledì 3 settembre 2014
La strada della privatizzazione della giustizia civile è sicuramente lastricata di ottime intenzioni e del merito di rompere il tabù che l’amministrazione della giustizia debba essere la prerogativa esclusiva di una casta ristretta. Ma rischia di portare ad un inferno addirittura più infuocato di quello che si vorrebbe eliminare. L’intenzione di smaltire il gigantesco arretrato costituito da milioni di cause civili che si trascinano da anni senza una conclusione certa è sicuramente una esigenza primaria. Così come è sicuramente una necessità assoluta quella di dare certezza di giudizio in tempi ragionevoli e non eterni ad un contenzioso civile che pesa come un macigno sull’economia del Paese. Infine, è sicuramente meritorio aver rotto il tabù della giustizia civile amministrata dalla sola corporazione delle toghe ipotizzando il ricorso ad un sistema arbitrale affidato ad avvocati esterni alle parti.
Ma nel perseguire la semplificazione e la certezza del giudizio civile attraverso una sorta di privatizzazione, sia pure limitata, della giustizia, bisognerebbe tenere conto di due rischi gravissimi che gravano sull’operazione. Il primo è quello dei costi del giudizio. Che vengono scaricati di fatto sui cittadini visto che questi ultimi non solo continuano a pagare l’ordine giudiziario attraverso le tasse ordinarie ma sono chiamati a pagare anche i giudici privati in caso di ricorso allo strumento di semplificazione predisposto dal Governo. Questo rischio non è tanto quello della giustizia di classe. Cioè del fatto che dovendo pagare il proprio avvocato e l’avvocato arbitro e correndo il rischio di perdere la causa, solo i ricchi potrebbero permettersi di avere giustizia. Il rischio, molto più grande, è che la giustizia civile, già caricata di costi sempre più alti per il comune cittadino, diventi una sorta di Fossa delle Marianne non solo per le fasce non privilegiate ma anche per gran parte delle piccole e medie imprese italiane, cioè per l’intero asse portante dell’economia nazionale.
Pagare il giudice privato, in sostanza, può risultare un peso insostenibile per imprese che di fronte alla prospettiva di essere caricate di un costo eccessivo potrebbero essere addirittura costrette a chiudere la propria attività per limitare rischi e danni. I costi della giustizia privata, quindi, non possono ricadere sui cittadini e sulle imprese. Perché dipendono dalla malformazione del sistema pubblico e non possono diventare una sorta di tassa aggiuntiva da scaricare sulle spalle dei contribuenti già gravati da una fiscalità eccessiva. La giustizia privata, quindi, deve essere a carico dello Stato. E lo deve essere anche e soprattutto per evitare un pericolo gigantesco che potrebbe verificarsi in quelle zone del territorio nazionale dove all’autorità dello Stato si contrappone la contro-autorità delle grandi organizzazioni criminali.
Non va dimenticato che alla radice dei fenomeni della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta c’è sempre e soltanto l’assenza di uno Stato che usa la propria forza per amministrare la giustizia. Dove lo Stato si ritira o è evanescente ad amministrare la giustizia secondo le proprie regole ed i propri interessi ci pensano i boss ed i capi bastone mafiosi o camorristici. Che non pretendono pizzi o contributi per questa loro attività arbitrale, ma chiedono sottomissione, obbedienza e un impegno ad una riconoscenza da far scattare a tempo debito.
Una giustizia privata trasformata in un peso eccessivo per i cittadini, in sostanza, rischia di cancellare il codice civile a vantaggio dei vari “codici d’onore” dei mascalzoni di ogni genere. Attenzione, allora, alle riforme malfatte. Possono provocare disastri irreparabili. A dispetto di tutte le buone intenzioni!
di Arturo Diaconale