sabato 12 luglio 2014
Negli ultimi cinque anni, cioè da quando oltre ad essere direttore de “L’Opinione delle libertà” ho ricoperto l’incarico prima di commissario e poi di presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, ho sempre tenute separate le mie funzioni. Avrei potuto dedicare una sezione de “L’Opinione” alle tematiche del mondo ambientale. Ma ho evitato di farlo per non sottoporre la mia attività di responsabile civile e penale di un ente pubblico agli inevitabili condizionamenti derivanti dalla collocazione politica di un giornale di cultura liberale.
Ma nei giorni scorsi il Corriere della Sera, con un attacco personale sgradevole e totalmente ingiustificato, ha strumentalmente mescolato e confuso le mie due funzioni. E mi ha messo nelle condizioni, soprattutto perché sono ormai arrivato ad un anno dalla scadenza del mio mandato di presidente del Parco, di poter superare il rigido confine che mi ero posto. Di qui la decisione di poter utilizzare il quotidiano da me diretto come utile strumento teso a trasformare la discussione in atto sul futuro dei Parchi e delle aree protette da trattativa riservata ai soli addetti ai lavori del ristretto mondo ambientalista a confronto aperto tra soggetti di più ampio e diverso orientamento.
Questo confronto è reso necessario dalla trasformazione del sistema ambientale in uno dei tanti problemi che affliggono il Paese e che possono essere risolti solo da una seria e radicale riforma. Questo problema non dipende solo dalle difficoltà contingenti provocate dalla crisi economica generale, che impone tagli drastici alle risorse pubbliche riservate agli enti e agli organismi che operano nel settore ambientale. È sicuramente vero, tanto per fare un esempio, che se manca la benzina per gli automezzi diventa impossibile per chi ha il compito di tutelare e salvaguardare il territorio operare sul territorio stesso. Ma il taglio drastico agli stanziamenti è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno più profondo.
La legge che regola il settore, la 394, pur avendo svolto una funzione sacrosanta e aver inanellato meriti su meriti, non è più adeguata alle esigenze presenti. Va riformata, come dai diversi settori del mondo ambientale viene ripetutamente richiesto, ma giace in Parlamento e non riesce a uscire dalla palude in cui è bloccata a causa del solito combinato disposto tra indifferenza dei parlamentari e contrasti paralizzati tra lobby opposte e conflittuali. Serve una scossa per riformare la legge. E il rischio di paralisi dei Parchi Nazionali e regionali denunciato ieri nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato il Presidente della Federparchi, Giampiero Sammuri, e i presidenti di numerosi Parchi tra cui il sottoscritto, può diventare la spinta necessaria per disincagliare la nuova legge.
Ma, proprio perché il rischio di paralisi del mondo ambientale è diventato fin troppo concreto, diventa indispensabile chiedersi se possa essere sufficiente modificare la 394. O se non sia arrivato il momento di puntare a una riforma di sistema introducendo in un contesto ambientale, che può rappresentare uno dei grandi fattori su cui puntare per la ripresa del Paese, quella serie di innovazioni profonde rese necessarie dall’esperienza maturata negli ultimi vent’anni e dalle esigenze di un tempo presente profondamente diverso da quello del passato. Serve, in sostanza, una riforma incentrata su una serie di innovazioni ruotanti attorno a tre principi.
Il primo è quello di una più netta separazione tra mondo ambientale e mondo ambientalista; separazione che porta automaticamente con sé la fine della funzione di ammortizzatore sociale del mondo ambientale per quello ambientalista e la conseguente semplificazione degli organi direttivi degli enti e la loro riduzione, attraverso l’accorpamento di più Parchi in aree omogenee. Il secondo è rendere i Parchi terreno di confronto e di collaborazione tra pubblico e privato per lo sviluppo del turismo ambientale. Il terzo è rompere il muro che separa il mondo dei beni culturali e quello dei beni ambientali, incominciando a ricordare che ambiente e cultura sono i fattori determinanti dell’identità del nostro Paese e non possono essere gestiti separatamente per salvaguardare i privilegi delle caste.
di Arturo Diaconale