La cosa migliore di Berlinguer? Bianca!

venerdì 13 giugno 2014


Guardare la tivù è una malattia, come dice la canzone di Peppino di Capri. Seguirla, è un lavoro. E vedere il salotto di Bruno Vespa alle prese con un entracte dedicato a Berlinguer, è un’occasione. Si parlava dell’eredità del segretario del Partito Comunista Italiano, della nostalgia, del suo lascito. Anche nel salotto scende un velo di malinconia. Lo squarcia quel velo e il connaturato rischio a scivolare nella retorica del mito, un accorto ministro Maurizio Lupi che svaluta storicamente l’aggressività berlingueriana contro il riformismo di Bettino Craxi, in nome della questione morale ma tacendo sui finanziamenti illegali dall’Urss, mentre un attento Berrino (Affari Italiani) archivia la politica del compromesso storico come nociva per la democrazia. Il resto, come si dice, è noia. Anzi, è nostalgia.

L’uso di Berlinguer come una icona, tanto comprensibile nei suoi “discendenti” politici quanto antistorica nei suoi effettivi risultati - per non dire delle squallide furbate elettoralistiche di Casaleggio - fa parte dell’inguaribile luogomunismo italico sotto l’effetto della nostalgia. Il punto è che la nostalgia si nutre, più che di ricordi, di omissioni. Il che fa sempre brutti scherzi. Per me vale, in questo caso, l’antica e sempre nuova massima secondo la quale la cosa migliore che un uomo possa o abbia fatto sono i figli. Con le ovvie eccezioni, beninteso. Dico subito, sommessamente, che la massima vale anche per Enrico Berlinguer nel trentesimo della morte. La sua eredità migliore è la figlia Bianca, di gran lunga la più completa delle direttrici del Tg3 e, probabilmente, una delle più accorte e professionali giornaliste Rai; non a caso cresciuta alla scuola di quel Minoli che ha lasciato una traccia inconfondibile nell'informazione radiotelevisiva. E lasciamo perdere il surreale sciopero del quale il peggio che si possa dire è che è stato approvato da un irriconoscibile Verro di Forza Italia ma forse eravamo su “Scherzi a parte”, chissà.

Quanto alla politica berlingueriana, sarebbe più completo inquadrarla in quella più ampia del Pci, da Togliatti in poi, ad eccezione dell’ultima fase della cosiddetta questione morale, che tanto abbaglia i fans e che invece spinse inesorabilmente il Pci in un vicolo cieco, aggravato dall’errore storico dell’abbandono dell’unica politica “costruttiva” berlingueriana, cui era peraltro estranea la stessa parola socialdemocrazia preferendole il marxismo-leninismo sovietico.

Capirai, nel 1976 e oltre... L’abbandono del compromesso storico iniziò con la morte di Aldo Moro, partner di Berlinguer, la cui estrema cautela verso quel Pci lo convinse, insieme a Craxi, ad escludere i ministri comunisti dal governo Andreotti nato proprio il giorno del suo rapimento. E venne subito la politica della fermezza. E l’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, pur divise al loro interno al punto che si stava profilando uno scambio fra una brigatista ammalata in carcere e graziata e Moro. Ma prevalse nelle Br la scelta dell’omicidio in pur stile mafioso che segnò non soltanto la loro fine, ma quella della politica berlingueriana.

La follia omicida aveva tolto il lume della ragione politica non solo a quel gruppetto di ignoranti fanatici anticipatori dell’ala militare e terroristica di Totò Riina - salvare Moro sarebbe stato il gesto dalla valenza indubbiamente politica - ma a quasi tutto il gruppo dirigente comunista. Fu un crimine, certo, ma anche e soprattutto un errore. Fino alla uscita dalle grandi intese, dallo Sme, dal sistema di difesa della Nato, ecc. Irreparabili passi, anelli di una catena destinata, con la svolta morale e della diversità, a cristallizzare, a inchiodare il futuro politico: Berlinguer ai cancelli della Fiat alla vigilia della marcia dei 40mila, Berlinguer dell’austerità negli anni in cui tutto l’occidente imboccava la strada opposta, Berlinguer della questione morale agitata come una clava con la mano destra mentre con la sinistra accettava i rubli del Pcus e non solo. Ma la vera sconfitta berlingueriana fu inferta dal riformismo (ancora negli anni Settanta parola indicibile, eretica) di Craxi, dalla testardaggine di una socialista che, quasi solo a sinistra, a parte i pochi della cultura liberale, si erse contro lo squallore conformistico di un panorama mediatico-politico appiattito sul Pci e impose insieme ai Dc anticomunisti una svolta, quella sì storica, al Paese. Certo, la morte di Berlinguer rimane un indelebile ricordo, come di un indomito combattente caduto nella battaglia. Da ciò anche l’effetto nostalgia.

È vero, Berlinguer è consegnato alla storia. E anche Craxi. La nostalgia del ricordo di entrambi non solo è legittima, ma necessaria. Una sorta di immersione nei ricordi, di ciò che poteva essere e non è stato per il Pci e per le sue responsabilità, e di ciò che è accaduto al leader socialista, cui la storia ha dato e dà ragione, al di là della damnatio memoriae alla quale non pochi nipotini di Berlinguer hanno di molto contribuito. Things change. Le cose cambiano. Perché cambiano gli uomini. Renzi non sarà (ancora?) un Craxi, ma certamente non è un Berlinguer. È già qualcosa.


di Paolo Pillitteri