Cinismo e spregiudicatezza non fanno un leader

sabato 17 maggio 2014


Non sarà la testa rotolata di Francantonio Genovese a frenare la corsa elettorale di Beppe Grillo. L’idea di Matteo Renzi di placare la voglia di forca e di ghigliottina che vent’anni di giustizialismo hanno instillato nel Paese procedendo all’esecuzione sommaria di un proprio parlamentare, si è rivelata un errore grossolano. Perché a consentito al leader del Movimento Cinque Stelle di rivendicare il merito dell’atto esemplare. E, soprattutto, perché ha dimostrato come il Premier non abbia saputo elaborare una strategia capace di fronteggiare la protesta che sale nella società italiana diversa da quella seguita dai quanti negli ultimi vent’anni lo hanno preceduto alla guida della sinistra italiana.

Renzi non ha capito la lezione che avrebbe dovuto impartirgli il fallimento dei vari D’Alema, Veltroni e Bersani. Cioè che il giustizialismo non si combatte con il giustizialismo, visto che c’è sempre, come dicevano i saggi del dopoguerra, chi si atteggia a più puro che ti epura. Il giustizialismo, al contrario, si combatte per un verso con la strenua difesa dello Stato di diritto, quello fondato sulle garanzie dei cittadini. E per l’altro affrontando coraggiosamente le cause reali che lo alimentano. Cioè il disagio e le difficoltà crescenti dei cittadini sottoposti ad una crisi economica, politica e morale che non sembra destinata a finire e che non appare avere precedenti.

La campagna elettorale ha messo impietosamente a nudo questa totale incapacità di Renzi di affrontare la protesta giustizialista e la crisi. Il Presidente del Consiglio ha esibito spregiudicatezza con la mancia elettorale degli 80 euro, e cinismo con la brutale esecuzione di Genovese. Ma non è riuscito a dimostrare di avere qualche altra caratteristica e risorsa oltre queste doti da politicante di basso conio. La svolta che aveva promesso non si è vista! Il risultato è che la protesta irrazionale a cui Grillo cerca di dare voce sale e rischia di trasformare il Movimento Cinque Stelle in un partito vicino al 30 per cento dei consensi. E quella sinistra, che avrebbe dovuto essere rigenerata dall’integratore rivitalizzante rappresentato da Renzi, rischia di essere addirittura scavalcata dai puri che la epurano non in nome della ideologia ma della rabbia.

Che succede se le elezioni del 25 maggio non dovessero risolversi nel plebiscito a favore di Renzi, pronosticato dai grandi media e dai sondaggisti servi nelle settimane scorse e concludersi con un trionfo di Grillo e con la conferma di un’area di centrodestra divisa ma ancora maggioritaria nel Paese?

La domanda incomincia a circolare con insistenza. In primo luogo all’interno del Partito Democratico, dove la sensazione crescente è che Renzi si preoccupi solo di se stesso piuttosto che del partito. E dove i nemici del Premier sfruttano questa sensazione per affilare le armi ed aspettare il momento più propizio per la resa dei conti. Ma la domanda gira anche nella maggioranza. Dove chi ha puntato tutte le speranze della propria sopravvivenza politica sulla fortuna del Presidente del Consiglio, incomincia a temere di aver compiuto un investimento sbagliato. Ed a pensare che se Renzi affonda l’unica possibilità di cavarsela è di ridare corpo ad un’area di centrodestra capace di superare il 30 per cento e destinata a diventare l’unico baluardo contro la rabbia dei forcaioli senza programmi.


di Arturo Diaconale