Giustizia, omaggio ad Émile Zola

martedì 13 maggio 2014


“… Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alle persone che accuso, non le conosco, non le ho mai viste, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti del male sociale. E l’atto che io compio qui non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho una sola passione, quella della luce, in nome dell’umanità che tanto ha sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta appassionata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in Corte d’Assise e che l’inchiesta abbia luogo pubblicamente. Attendo…”

Così Émile Zola concludeva la sua lettera, “J’accuse”, scritta al presidente della Repubblica Félix Faure in difesa di Alfred Dreyfus e pubblicata il 13 gennaio 1898 sul giornale socialista “L’Aurore”. Lo scrittore fu accontentato. Mentre esplodeva il caso Dreyfus, lo condannarono, per il suo j’accuse, ad un anno di carcere e ad una forte ammenda. Dovette rifugiarsi in Inghilterra. Tornò subito dopo l’amnistia promulgata alla fine del 1899. Subì pesanti minacce e fu avvelenato nel 1902 dalle esalazioni di una stufa mentre sedeva al suo tavolo. La moglie, Alexandrine, fu salvata per miracolo e molti sospettarono che la morte fosse frutto di un attentato. Al suo funerale parteciparono uomini famosi, come Octave Mirabeau, e meno famosi, come i minatori che seguirono commossi il feretro al grido di Germinal, Germinal, il titolo di uno dei suoi romanzi. Aveva avuto coraggio. Per difendere un innocente aveva sfidato il potere. La lettera di Zola al presidente francese Felix Faure è diventata un simbolo. Da allora questo grido, j’accuse, ha attraversato la storia di un intero secolo, ha accompagnato la sofferenza di milioni di perseguitati, ha scosso le coscienze, ha sostenuto le proteste degli innocenti, ha dato speranza ai più deboli. Ma non è riuscito ad impedire che le ingiustizie si ripetessero ancora. Non è riuscito a fermare i pregiudizi ed i preconcetti che provocano errori giudiziari insanabili e inaccettabili. Non è riuscito a cambiare l’anima e la qualità del sistema giustizia e a distanza di più di cent’anni, ebbri d’orgoglio per aver costruito questa nostra “democratica civiltà”, non siamo riusciti né a curare né a sanare le terribili malattie che profanano il diritto, tradiscono la verità e violano l’equità.

Una catena ininterrotta di errori giudiziari, di ingiusti processi, di violenze carcerarie e di umane sofferenze lega epoche diverse e differenti regimi, fino ad imprigionare l’intera società organizzata in un sistema incapace di rinnovarsi e di garantire a tutti una giustizia giusta e una libertà inviolabile. Eppure viviamo l’Era delle grandi invenzioni scientifiche, delle stupefacenti scoperte tecnologiche, delle moderne conquiste sociali, immersi nella presunzione di infallibilità e di superiorità. Resta inspiegabile che i mondi della cultura, delle categorie professionali, della produttività e della politica siano totalmente incapaci di riformare lo Stato rendendolo equo, efficace, rapido e rispettoso dei diritti inalienabili della persona. Ci definiamo “intelligenti” e permettiamo che l’umanità che tanto ha sofferto, come dice Zola, subisca indifesa le insanabili ferite inferte dalla corruzione politica e da un sistema giudiziario malato e spesso iniquo. Lo scrittore francese intervenne con l’autorità della cultura e con il coraggio dell’uomo giusto.

Nell’Italia del terzo millennio non esistono autorità morali capaci di dare allo Stato un nuovo ruolo che garantisca ai cittadini diritti, partecipazione e rispetto proteggendoli dai soprusi della burocrazia e delle caste al potere. Qual è, oggi, e da dove viene l’auctoritas in grado di costruire la “città dell’uomo”, secondo una visione spirituale, o “la città per l’uomo” secondo una visione laica? Alla sovranità popolare, se mai fosse stata realizzata, non è nemmeno più consentito di scegliere direttamente gli eletti. I cosiddetti rappresentanti del popolo, vengono nominati da una oligarchia divisa in lobbies e caste. La democrazia rappresentativa è oramai una formula vuota, un partita truccata dove il bagatto, il prestigiatore inganna e vince sempre, qualunque sia la posta e il gioco, dove l’egoismo di oggi ruba il futuro alle generazioni che verranno. Può amministrare la giustizia uno Stato che “produce” oltre 8 milioni di poveri, più di 3 milioni di disoccupati, il 42,3% di giovani senza lavoro, decine di migliaia di fallimenti di imprese produttive e centinaia e centinaia di suicidi per cinismo fiscale? Può amministrare la giustizia uno Stato che impiega in media più di sette anni per emettere una sentenza penale, che ha subito duemila condanne per la violazione della convenzione europea, che paga centinaia di milioni di risarcimenti per errori giudiziari, che tiene per anni in custodia cautelare il 42% dei detenuti costretti a vivere in carceri disumane? Può amministrare la giustizia uno Stato che dilapida le risorse e il patrimonio di un’intera nazione distruggendo il presente e l’avvenire dei suoi giovani?

La giustizia è il cuore vivo e pulsante di una società civile. Se vogliamo costruire uno Stato fondato su una democrazia compiuta dove la potestas derivi dall’equità sociale e dalla volontà dei cittadini, dobbiamo riformare prima di tutto il sistema giudiziario. È tempo di trovare il coraggio di cambiare, superando gli steccati ideologici e abbattendo le barriere partitiche. Magistrati e politici, imprenditori e sindacalisti, laici e clericali, di destra e di sinistra, è giunto il tempo della responsabilità, della generosità, dell’unione, senza pregiudizi ed egoismi. Gridiamo ora il nostro j’accuse perché vogliamo che non debbano gridarlo mai più le incolpevoli generazioni che verranno dopo di noi, eredi della speranza e del futuro che costruiremo per loro.

(*) Vicepresidente vicario del Tribunale Dreyfus


di Loris Facchinetti (*)