L’immigrazione che incrocia l’Italia

martedì 6 maggio 2014


Un’antica legge del mare prescrive che nessuno venga lasciato indietro. Soccorrere, ancor prima di essere un dovere sanzionato giuridicamente, è affare di coscienza. Nell’alfabeto Morse il segnale universale di richiesta d’aiuto è identificato dalla sequenza Sos. Nella lingua delle comunicazioni marittime internazionali, l’inglese, Sos sta per “Save Our Souls”, salvate le nostre anime. Già! Perché in mare prima dei corpi contano le anime. E di anime in questi ultimi vent’anni il Mediterraneo, il nostro mare, ne ha prese tante.

Sulla sottile linea dell’orizzonte che ci separa dalla terra d’Africa, si staglia il segno di una frattura ontologica. Su una sponda è schierata la grande famiglia della gente di mare italiana che ha piena consapevolezza del senso dell’onore e del corrispondente senso dell’onta. Sulla sponda opposta si annidano gli “scafisti”, spregevoli trafficanti di esseri umani, moderni pirati del tutto privi di qualunque cosa assomigli a una coscienza. In mezzo, la massa dei disperati. L’imperativo etico per ognuno di quegli uomini d’onore che affrontano il mare sarà sempre e soltanto salvare quante più vite possibili. Questa è la “Pietas”, parte del Mos Maiorum iscritto nel Dna di una civiltà che a noi si tramanda dai tempi dell’antica Roma repubblicana. Tuttavia, lo sforzo di solidarietà che compie la nostra gente non può costituire, da solo, la risposta esaustiva alla questione dell’immigrazione clandestina che in Italia sta prendendo una brutta piega. C’è, infatti, il rischio concreto che la società civile si divida determinando un’ostilità in coloro che vedono nel fenomeno migratorio incontrollato un reale pericolo per la sicurezza sociale e per la sopravvivenza della identità, della storia e della cultura patria.

A soffiare sul fuoco del conflitto etico vi è l’atteggiamento insopportabile della sinistra di potere, la quale nasconde i suoi piani di trasformazione morale della società dietro uno stucchevole “buonismo”. Chi, invece, osa contestare le politiche d’accoglienza dei migranti viene bollato come xenofobo, razzista. Eppure, l’Italia, anche quando ha governato la destra politica, non è stata terra ostile agli stranieri. Neanche quando era divisa in piccole patrie. Già prima della rivoluzione industriale la nostra penisola intercettava correnti migratorie. Ne sono prova le numerose minoranze etnico-linguistiche (tedeschi, albanesi, serbo-croati, catalani e franco-provenzali) perfettamente integrate nell’identità storica italiana. Alla fine degli anni Settanta, i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia erano 143.838. La crisi economica delle società industrializzate, seguita ai due successivi shock petroliferi del 1973 e del 1979, ha spinto l’onda migratoria verso quei Paesi che non avevano ancora adottato normative restrittive in materia di ingressi. Tra questi vi era l’Italia. Gli extracomunitari, benché dotati di un livello sufficiente di scolarizzazione, si prestavano a sostituire la monodopera autoctona in lavori che quest’ultima non sentiva più di voler svolgere. Per questa ragione è sacrosanto ammettere che i migranti hanno servito la nostra economia e la qualità complessiva della nostra vita sociale, migliorandola.

Nel 1997 sono stati censiti un milione di extracomunitari residenti con regolari permessi di soggiorno. L’impennata dei flussi è stata determinata dall’implosione dell’est europeo. Non è possibile dimenticare le immagini strazianti delle carrette del mare, salpate dai porti dell’Albania, piene all’inverosimile di disperati pronti a tutto pur di sbarcare in Italia. Il crollo del comunismo e lo scoppio della guerra nei Balcani costituivano i fattori causali di un esodo di dimensioni bibliche.

Nel 2005 gli immigrati regolari in Italia sono saliti a 3.035.144 unità, a cui andava aggiunto il numero degli immigrati clandestini. Una cifra quasi limite per le capacità recettive della nostra economia e anche del tessuto sociale. Il contatto ravvicinato con realtà sfuggite di mano ha generato comportamenti d’intolleranza nella popolazione residente, in gran parte giustificati dal moltiplicarsi di episodi di violenza criminale di cui si rendevano responsabili soggetti stranieri irregolari. Ma il senso del pericolo imminente non può costituire di per sé un alibi per comportamenti preclusivi. Accogliere si può e si deve, a condizione che non ne risulti compromesso l’equilibrio sociale.

Tuttavia, il fenomeno ha subito negli ultimi tempi una mutazione genetica che ci obbliga a riflettere. Le ultime ondate migratorie sono state caratterizzate dall’arrivo di consistenti gruppi di religione islamica. Il carattere chiuso, spesso settario, delle comunità musulmane ha evidenziato la loro impermeabilità agli influssi della cultura e delle tradizioni occidentali. È stato osservato che tali gruppi, articolati per lo più in strutture claniche, oppongono un netto rifiuto a tutte le ipotesi d’integrazione con i contesti locali. Al contrario, essi tendono a creare isole franche all’interno delle quali far valere le proprie regole sociali, anche in contrapposizione all’ordinamento giuridico del Paese ospitante. Il problema, quindi, viene ribaltato sulla collettività autoctona che deve decidere quale strada intraprendere, se quella dell’opposizione intransigente a ogni cessione identitaria, o, viceversa, quella dell’accettazione passiva di paradigmi multiculturali disomogenei.

La sinistra italiana è convinta che il “melting pot”, il miscuglio di etnie, di religioni, di tradizioni faccia bene alla nostra identità. La contaminazione è vista come un fattore sociale coesivo. Le ideologie provenienti dal marxismo e da certo “sociologismo sessantottino” d’antan hanno incanalato il futuro delle società a capitalismo maturo nel solco del relativismo culturale.

È lecito opporsi a questa deriva senza per questo essere definiti indebitamente “fascisti”? In un sistema democratico ha diritto di cittadinanza anche una visione etnocentrica della società che non contrasta con l’impianto costituzionale-liberale dello Stato. L’esempio classico, a cui ispirarsi, è quello statunitense. Nessuno oserebbe mettere in discussione il modello democratico di quel Paese per il fatto che in esso si applichi una politica di contrasto all’immigrazione clandestina tra le più severe al mondo. Esiste, dunque, anche in Italia una parte di popolazione che è impegnata a difendere una specifica identità culturale. È la medesima quota di popolo la quale ritiene che gli assoluti abbiano ancora una ragion d’essere e che i valori non siano semplicemente dei “criteri orientativi” per gli individui.

Secondo l’Istat, gli immigrati residenti nel nostro Paese, al 2013, sono 4.387.721. A costoro si devono sommare gli irregolari, valutati in 326mila unità. I numeri parlano chiaro. Piaccia o meno alla sinistra, è tempo che si smonti l’impalcatura di supporto al “pensiero unico” in materia di immigrazione. Lo Stato deve provvedere, senza indugi, al respingimento dei clandestini attraverso il blocco navale dei porti di partenza. Non saremo per questo meno democratici, checché ne dicano quelli di sinistra. Si abbia, però, la consapevolezza che l’Italia è sola di fronte alle sue responsabilità.

L’Unione Europea, una volta di più, ha mostrato di non essere altro che una finzione giuridica ad uso degli Stati continentali più forti. La difesa dell’identità nazionale dall’invasione incontrollata di “altri mondi” non è battaglia di retroguardia di movimenti politici passatisti. È nelle corde del moderno liberalismo combatterla giacché, dietro la faccia mite dell’accoglienza a tutto campo, si cela il sodalizio mai sciolto tra la cultura anti-borghese e anti-liberale del comunismo novecentesco e un certo cattolicesimo di ascendenze dossettiane. Oggi figure di politici come la Boldrini e la Bindi personificano la comune adesione a un modello sociale pauperistico, nel quale l’unico capitalismo ammissibile è quello di “Stato”, l’unica impresa credibile è quella diretta dalla mano pubblica e la ricchezza privata è sinonimo di colpa da cui doversi emendare.

Il piano, quindi, di mantenere a spese dei contribuenti, a cui suggere le sostanze residuate al drenaggio fiscale ordinario, masse oceaniche di disperati rappresenterebbe, nella nostra ipotesi, una componente del meccanismo espiatorio progettato dall’ideologia cattocomunista per la sottomissione morale della borghesia produttiva. Se così dovesse essere, allora varrebbe la pena di battersi. Essere liberali non vuol dire essere pavidi. Lottare per difendere i propri valori resta pur sempre un’azione nobile di cui andare fieri.


di Cristofaro Sola