sabato 22 marzo 2014
“Quando c’era Berlinguer” avevano tutte trent’anni di meno le duemila persone che hanno partecipato alla prima del film di Walter Veltroni. Alcune di loro, come le ragazze ministro del Governo Renzi, erano appena nate. Ma la stragrande maggioranza aveva superato l’adolescenza e si preparava a svolgere quell’attività che nei trent’anni successivi l’avrebbe portata ai vertici delle rispettive carriere, conquistando così il titolo per poter presenziare alla presentazione del film dedicato ad Enrico Berlinguer.
Alle prime, si sa, si invitano le star ed i big. E il pubblico della Sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma era rigorosamente formato da star e da big. Ma non si è trattato di una prima cinematografica tradizionale. Perché i duemila personaggi di rilievo presenti alla prima proiezione del film di Veltroni hanno dimostrato di non essere una massa occasionale e raccogliticcia di generone misto a potenti come accade normalmente nelle occasioni mondane di Roma. Ma hanno mostrato di avere, e non hanno esitato a mostrare, una fortissima identità comune rappresentata dalla vera eredità lasciata da Berlinguer alle future generazioni italiane. Quella costituita dalla convinzione di essere l’espressione della parte del Paese che essendo moralmente “diversa” rispetto a quella normalmente e tragicamente amorale, è geneticamente superiore e deve automaticamente esprimere il nucleo migliore e determinante della classe dirigente del Paese.
All’Auditorium, in sostanza, la presentazione del film di Veltroni ha radunato quella che i Rizzo e gli Stella, se non fossero politicamente corretti, dovrebbero definire “La Casta”; ciò che Galli della Loggia, curiosamente nello stesso giorno in cui sul “Corriere” è comparsa la cronaca commossa ed entusiasta dell’evento, ha definito il “potere sociale italiano”. Quello che negli ultimi trent’anni si è formato “all’insegna della protezione degli interessi costituiti, della moltiplicazione dei contributi finanziari al pubblico come al privato, della creazione continua di privilegi piccoli e grandi, della disseminazione di leggine e commi ad hoc, della nascita di enti, Authority, società di ogni tipo, all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica”.
Paolo Pillitteri ieri su L’Opinione ha magistralmente ricordato come il bilancio politico di Enrico Berlinguer sia stato profondamente negativo. E ha rilevato, a conferma della sua considerazione, che quel processo di rinnovamento e di modernizzazione del Paese contro cui l’allora segretario del Pci si era battuto all’insegna della “diversità” morale, viene riproposto oggi da Matteo Renzi. Come a dire che l’eredità di Berlinguer è stata la paralisi trentennale della società nazionale. Ma se l’osservazione di Pillitteri è vera (e lo è senza ombra di dubbio), ne deriva che i duemila vip e big della “casta” dell’Auditorium , quelli che in nome della “diversità” berlingueriana hanno gestito il “potere sociale” italiano negli ultimi tre decenni e si considerano l’aristocrazia repubblicana legittimata a perpetuarsi all’infinito proprio in nome della propria diversità-superiorità, sono i veri responsabili della paralisi italiana. Cioè la parte peggiore del Paese in quanto causa di quelle resistenze al cambiamento che rendono difficilissima l’uscita dell’Italia dalla crisi.
Il produttore di “Quando c’era Berlinguer”, cioè l’amministratore delegato di Sky Italia, Andrea Zappia, si è detto fiero di aver presentato il film di Veltroni. Dal suo punto di vista, quello di chi punta a fare di Sky l’organo del potere sociale italiano politicamente corretto, ha compiuto un’ottima scelta. Dal punto di vista dell’interesse del Paese avrebbe fatto meglio a produrre un altro film: “Dimenticare Berlinguer!”.
di Arturo Diaconale