giovedì 20 marzo 2014
Il sindacato, che nella legge e nei fatti configura una sorta di ente parapubblico, è abnorme rispetto alla Costituzione. La realtà sindacale non corrisponde al modello di libertà sindacale disegnato dai costituenti, i quali vollero bensì, con piena ragione, che il sindacato fosse “completamente immune da qualsiasi influenza statale”, l’opposto del regime fascista, ma pretesero pure, purtroppo invano, “un ordinamento interno democratico, fondato sulla libera scelta, e sull’elezione diretta e segreta di tutti i dirigenti, nonché sull’approvazione da parte dei soci delle deliberazioni e dei bilanci”.
Attraverso le sue due principali leve di potere, la contrattazione collettiva nazionale e la concertazione con imprenditori e Governo, il sindacato riesce ad ispirare e perfino dettare al Parlamento i capisaldi della legislazione sociale, dall’economia al lavoro. Enti privi di personalità giuridica, senza essere soggetti di diritto, hanno tuttavia succhiato alla Repubblica benefici e sinecure - basti pensare ai permessi per migliaia di sindacalisti al costo di decine di milioni di euro - e godono di trattamenti di favore a carico dell’Erario. I moderni parlamenti seppellirono la forma medioevale della rappresentanza, togliendo la legiferazione dalle mani delle categorie.
Per ingraziarsi i sindacati, nel timore di perderne l’appoggio elettorale, i partiti hanno invece consegnato a questi collettori di voti il potere di dettare legge a tutti e di opporre veti alle leggi sgradite. L’estensione all’intera società di un potere normativo già problematico nell’alveo della contrattazione collettiva ha allontanato i sindacati dalla concezione costituzionale. La fine del contratto nazionale avrebbe aperto, addirittura, secondo Eugenio Scalfari, l’epoca “dopo Cristo” delle relazioni industriali. Inoltre è assodato che i rappresentanti degli interessi tendono sempre a essere pessimi legislatori, perché, come insegna Luigi Einaudi, essi non rappresentano la generalità né degli interessi presenti, né di quelli futuri. Infine, la contrattazione nazionale e la concertazione triangolare, anche per il rifiuto sindacale della registrazione, non sono ricavabili o ricavate dalla Costituzione, ma concesse dalla politica al sindacato, con l’avallo dei giudici e degli accademici. Agendo in assoluta libertà, il sindacato ha acquistato i connotati di un potere pubblico, parastatale, istituzionalmente bifido, perché partecipe della funzione legislativa ed esecutiva. Il potere sindacale, secondo la forma e la sostanza riscontrabili nella Costituzione materiale, non è rintracciabile nella Carta, ma soprattutto ne contrasta specifici articoli, fondamentali, sulla sovranità popolare e il sistema di governo. I sindacati menano vanto di lottare per l’occupazione. Però sono loro che determinano il costo del lavoro, cioè il principale incentivo alla disoccupazione.
Forse senza neppure volerla del tutto, oggi i sindacati non sanno come uscire da una situazione nella quale, per loro decisioni inconsapevoli del risultato complessivo, metà del salario finisce allo Stato anziché in busta paga. L’economia di concorrenza è un mercato di mercati. Non può funzionare bene se il mercato del lavoro non è concorrenziale perché monopolizzato dal sindacato. Il posto dove un uomo può fare più danni che in guerra è, dopo il Parlamento, il sindacato, se il sindacato pretende, non senza prepotenza, di determinare la politica generale anziché sviluppare in forma moderna tutta l’utilità potenziale connaturata al suo originario, benefico, volontario associazionismo mutualistico.
di Pietro Di Muccio de Quattro