giovedì 27 febbraio 2014
È francamente datata la battuta “hai voluto la bicicletta, Matteo?”. È superata dal web, da Twitter, dagli hashtag. Eppure, persino per “demolition man” vale sempre il rude invito a pedalare. E attento alle curve.
Ma non di consigli - non richiesti - vorremmo dire. Anche perché di Renzi tutto s’è detto e ridetto talché un punto fermo, almeno per la novità politico-mediatica, l’ottimo Aldo Grasso sul Corriere della Sera l’ha fissato. Non concordiamo con quanti hanno rilevato che il Premier deve o dovrà farsi perdonare la brutale eliminazione di Letta: quest’ombra è respinta dalla struttura stessa della “mens” renziana, non rientra nel suo schema comportamentale. Da aggiungere un qualche nostro piccolo tassello all’affresco che la politica nel suo complesso sta realizzando. Perché nella Polis, da Pericle in poi, è sempre necessario un Capo che governi. Ma pure i suoi interlocutori, alleati, avversari e, ovviamente, il popolo.
Cominciando da quest’ultimo, e verso quest’ultimo, è già stato osservato che la tecnica di Renzi non prevede mediazioni o filtri. Il cui fondamento semantico è un’estrema chiarezza del linguaggio. La forza del “logos” renziano sta nella sua estraneità ad oscurità, a involuzioni, a giri rococò: al politichese. Forse è presto parlare di ritorno della Politica. Certo, la politica cambia. È un moderno populista frutto della deideologizzazione al suo ultimo stadio, che il medium televisivo ha sublimato e starei per dire sussunto. Per cui Senato, Camera, Governo, Istituzioni, Scuole, Europa, diventano palcoscenici o, meglio, set di una rappresentazione contrassegnata dalla velocità, dalla mobilità, da un sito all’altro, da una scenografia all’altra. Un set su cui il capo offre e si offre in una sorta di comunione laica e mistica. Dentro la quale, tuttavia, il capo rimane il capo ma con una novità rispetto a prima, mettiamo al Cavaliere che resta comunque il suo modello: in Renzi c’è l’assunzione pubblica e ripetuta della responsabilità. Nel fallimento ma, sia ben chiaro, anche nei successi. Sicché la comunione, nel suo lato politico, personalizza e sublima sconfitte e vittorie e non prevede, da parte del comandante, il ripiego sulle colpe degli altri di prima o degli alleati infidi o dei nemici interni. Se sbagliamo, pago io.
Questo messaggio al “popolo” così diretto, ripetuto, compreso, gradito (per ora...), possiede tuttavia un’ambivalenza, una multipla irradiazione squisitamente politica e che riguarda, soprattutto, le insidie e i timori di una coalizione. Mettiamo di Alfano, Cicchitto, Lupi, Formigoni, Sacconi, Schifani. I quali non soltanto auspicano una lunga durata del Governo, prima di Letta e poi di Renzi, ma chiedono la sottoscrizione di un patto sulla legge elettorale intrecciata indissolubilmente alla riforma costituzionale. Non hanno tutti i torti, non foss’altro perché il punto di forza è l’essere determinanti al Senato. Ma l’accordo Renzi/Berlusconi incombe - pur oscillando fra bastone e carota - proprio su questo punto, non solo o non tanto per una loro sostituzione in corsa, ma per l’oscura forza dell’alleanza parallela e dei suoi riflessi mediatico-politici; massima libertà a Forza Italia, anche nello spaziare a zonzo per l’etere, lisciando il giovane leader e bastonando i traditori secondo la sceneggiatura.
Ma le cose stanno davvero così? Non ne siamo convinti. La stessa insistenza del Nuovo Centrodestra sul patto, che ci sia o non ci sia, è un messaggio indiretto, non incisivo nella narrazione popolare, una questione di lana caprina. Il Governo durerà fino a quando manterrà qualche promessa, ma soprattutto fino a quando converrà al Premier: questo è il suo messaggio. Le vicende passate, presenti e future renziane presuppongono una sua sostanziale indifferenza a strettoie, l’inimicizia strutturale per riti e liturgie d’antan (verifiche, rimpasti, ecc.), l’insostenibilità di minacciate camicie di forza pattizie o meno. Non ne vuol sentire l’incombenza, così come non sente la necessità di farsi perdonare (lui!) la sconfitta sul campo dell’avversario di partito: e perché mai, si chiede, io devo fare le riforme, devo governare per il bene del mio popolo. È il suo messaggio semplice semplice. Il popolo lo capisce, il logos funziona, il medium lo diffonde. Appunto, il medium e il messaggio. Funzionali al leader, e solo a lui. Al suo palcoscenico di una perenne festa mobile, sul set di una movida politica col riflettore puntato: sul sé ipsum, perché lui rappresenta la comunione col popolo e poi col Governo. E poi con la coalizione e gli alleati di maggioranza, e quelli fuori. Alfano, certo, e pure Berlusconi, si capisce. Ma soprattutto con chi ci sta. E se del caso, anche con Grillo. Così è, se vi pare.
di Paolo Pillitteri