venerdì 24 gennaio 2014
È difficile credere che il Partito Democratico possa superare indenne la fase politica aperta dal plebiscito che ha imposto alle Primarie Matteo Renzi alla segreteria del partito. La sensazione che non ce la possa fare non nasce solo dalle dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del partito o dall’ormai dichiarata intenzione della sinistra interna di trasformare in un Vietnam pieno di trappole e agguati il prossimo iter parlamentare del pacchetto riforme concordate da Renzi e Berlusconi. Non deriva nemmeno dall’agitazione che sembra aver colto i partiti minori della coalizione di Governo, in particolare da Scelta Civica pronta addirittura ad aprire la crisi pur di ottenere “rispetto” dal segretario del Pd.
E neppure dagli scontri sempre più frequenti tra renziani e avversari all’interno dei gruppi parlamentari di Camera e Senato e dalla clamorosa frattura tra la renziana presidente della Regione Friuli Venezia-Giulia Serracchiani e il ministro bersaniano Zanonato. Tutti questi contrasti si possono pure risolvere. Magari con sforzo, con difficoltà, con reciproci sacrifici. Ciò che non è invece assolutamente conciliabile e che appare del tutto irrisolvibile è la distanza siderale che ormai separa la maggioranza del partito che appoggiando Renzi ha compiuto una scelta irreversibile in favore del sistema maggioritario e la minoranza che non rimane solo ferma alle idee e alle posizioni della sinistra tradizionale, ma che rimane fedele al proporzionalismo della Prima Repubblica.
Si è detto più volte che questa separazione tra maggioritari e proporzionalisti è vecchia almeno di vent’anni. In fondo l’eterno duello tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni dipendeva proprio dal fatto che mentre il primo era per un proporzionale destinato a favorire l’egemonia del Pd attraverso le coalizioni governative formate dalla sinistra e dai “cespugli” del centro e delle destre minoritarie, il secondo era per la vocazione maggioritaria di una sinistra che non avrebbe dovuto mai contaminarsi con nessun soggetto proveniente dalla schieramento opposto. Lo schema di allora si ripete.
Con Renzi che riprende la posizione di Veltroni e Cuperlo che continua ad essere il fedelissimo dalemiano che è sempre stato. Ma oggi lo schema del passato si arricchisce di una nuova e più forte divergenza. Perché Veltroni e D’Alema si dividevano sull’alternativa maggioritario-proporzionale ma nutrivano la stessa concezione tradizionale del partito, fondata sul centralismo democratico del gruppo dirigente e non del leader. Viceversa, Renzi ed i suoi oppositori sono divisi non solo dalla scelta per il proporzionale o per il maggioritario, ma anche dalle opposte concezioni del partito del leader e del partito dei notabili.
Non a caso agli occhi dell’attuale minoranza il segretario viene considerato come una sorta di clone di sinistra di Berlusconi, mentre Renzi tratta i suoi oppositori interni come dei combattenti e reduci di guerre ormai finite da tempo. La spaccatura, allora, non è solo politica ed ideologica ma è anche antropologica. Le due componenti interne del Pd sono come etnie diverse che risiedono sullo stesso territorio e, nella difficoltà di trovare un modus vivendi, se lo contendono con le unghie e con i denti. La legge elettorale maggioritaria concordata da Renzi e Berlusconi dovrebbe scongiurare ogni ipotesi di scissione.
In caso di rottura la minoranza dovrebbe superare almeno la soglia del cinque per cento. Ma non è detto che la legge riesca a superare indenne il percorso parlamentare. E, soprattutto, non è affatto detto che la minoranza di oggi rinunci a tornare ad essere maggioranza in futuro. E non metta in conto la crisi di Governo e le elezioni anticipate per mandare a picco il segretario e ritornare alla leadership di gruppo. Forse il ritorno al voto potrebbe essere molto più vicino di quanto si pensava nei giorni scorsi! Ovviamente a causa dell’irrisolvibile travaglio interno del Pd!
di Arturo Diaconale